di Jaime Bayly
Traduzione di Silvia Sichel
pp. 288
€ 19,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
Molti anni dopo, tenendosi una bistecca congelata sull’occhio ormai tumefatto, il vecchio Gabriel García Márquez si sarebbe ricordato di quella volta che Mario Vargas Llosa, stringendo la mano di sua moglie, gli aveva detto che non fumava erba e non beveva mai alcolici. In quegli anni, il loro rapporto era ancora molto stretto e la loro vita si divideva tra la Francia, la Spagna e gli Stati dell’America latina. Mario era un ex docente universitario che, su consiglio della sua agente letteraria Ballcels, si era trasferito a Barcellona per scrivere a tempo pieno; Gabriel, che non aveva avuto fortuna con il suo primo romanzo, Foglie morte, pubblicato con difficoltà da una piccola casa editrice colombiana, si era ritrovato, invece, ad abitare accanto alla casa di Llosa (che considerava il più grande scrittore vivente), dopo essersi arrabattato cantando e dormendo nella metropolitana parigina per qualche anno. Cent’anni di solitudine era ancora lontano, Conversazione nella Cattedrale era da poco uscito, Remedios la bella era solo l’allucinazione dell’aborto avuto dalla compagna di Marquez qualche anno prima (p. 118), mentre Roger Casement non era che un patriota irlandese sconosciuto, e gli eventi che avrebbero portato Marquez a cercare dentro di sé i motivi per i quali Llosa gli avesse dato un pugno in faccia non erano ancora accaduti
Si potrebbe iniziare in questo modo la recensione del libro di Jaime Bayly, I giganti, e non per una semplice boutade o per voler parodiare il celeberrimo incipit di Cent’anni di solitudine (sempre splendido anche solo nel ricordo), ma perché così facendo si potrebbero mettere bene in evidenza alcune caratteristiche fondamentali del romanzo di Bayly, alcune sue particolarità che si inseriscono nella tradizione letteraria sudamericana, e soprattutto in quella del suo boom mondiale nato dal successo di Marquez e Llosa.
Anche nei Giganti, infatti, la narrazione degli eventi sembra ripercorrere i dati di una realtà che, a tratti, pare essere magica, straordinaria e che non sembra poter seguire uno sviluppo progressivo lineare, ma circolare. Anche nei Giganti sono presenti l’attaccamento alla terra natia e una narrazione epica degli eventi, soprattutto di quelli che raccontano le vicende della nascita delle opere dei due protagonisti. Bayly, scrivendo con un lirismo non paragonabile a quello di Marquez e con una precisione linguistica lontana dal miglior Llosa, ripercorre, attraverso alcuni eventi capitali e alcuni aneddoti poco conosciuti (forse anche per questo, particolarmente interessanti), la storia di un’amicizia e, con essa, la vita di due scrittori geniali. E lo fa partendo dalla conclusione violenta di un legame, da quel pugno che realmente Mario Vargas Llosa tirò a Gabriel Garcia nel 1976 e che pose fine a un rapporto di amicizia più che decennale.
Il libro non è una biografia. Il libro narra la storia della nascita e della fine di un legame che ha unito due dei più grandi scrittori in lingua spagnola del Novecento: Gabriel Garcia Marquez e Mario Vargas Llosa. Quasi coetanei (Llosa era di qualche anno più grande di Marquez), entrambi di successo, entrambi vincitori del premio Nobel, entrambi comunisti e immersi nelle vicende storico-politiche, entrambi con un carattere particolarmente forte, almeno nella narrazione portata avanti dall’autore. Sì, perché nei Giganti i fatti realmente accaduti rientrano nella costruzione della storia, ma lo fanno come puntelli da cui parte la finzione romanzesca, come paletti intorno a cui si dipana la trama.
I giganti si legge rapidamente e con piacere: non è una biografia, e non è neppure un romanzo totalmente finzionale; sembra percorrere la strada fortunata dei biopic (soprattutto quelli «liberamente tratti da»), e lo fa con la consapevolezza della necessità della rapidità, con il bisogno di leggerezza, di semplicità, di creazione di immagini incisive per poter mostrare le pieghe di un rapportarsi, da parte dei protagonisti, unico alla realtà.
Il tutto condito da situazioni e da dialoghi che a tratti possono ricordare il machismo hemingwayano, machismo che è la caratteristica di Llosa che più emerge. È un machismo sempre presente nella narrazione, nei gesti dei due scrittori, ma lo è senza essere costantemente davanti al baratro della morte. Nei Giganti, infatti, l’eroismo delle figure descritte e la durezza dei comportamenti e dei dialoghi non si mostrano come la spia di una tragedia che si cerca di accarezzare e che si sente in ogni passo, ma si aprono a una pulsione magica e leggera, a uno scontro tra figure che si ergono nella loro grandezza.
Bayly prende spunto da fatti accertati per raccontare una storia che non sempre segue la rigida via della realtà, ma che fa del miscuglio realtà-finzione il suo punto di forza, la sua caratteristica più importante. Fatti, supposizioni, realtà o finzione: la catalogazione rigorosa non è importante, ciò che conta è il miscuglio, il mischiare le carte per evocare la magia di due vite che si intrecciano per un po’, prima di sfilarsi repentinamente. Il romanzo di Bayly cerca di dare una spiegazione alla fine di un’amicizia, e lo fa con la consapevolezza del fatto che le ragioni, anche quando evidenti, affondano sempre in lunghi rancori, in piccole divergenze che si induriscono nel corso degli anni.