«Come farò, se il mondo è pieno di bellezza, a sapere cosa voglio davvero?». A spasso tra desideri con Nicola Cosentino



Con C'è molta speranza (ma nessuna per noi) (Guanda, 2025), Nicola Cosentino ci porta a spasso tra i desideri di H. - scrittore a caccia di idee e di un nuovo appartamento - e quelli di individui affaccendati tra bollette, professioni instabili, ricordi insidiosi. 

Tra svelamento e magia, ironia e tenerezza, l'autore riflette sul mestiere di adulto, chiedendosi se si è mai pronti per un ruolo così delicato. 

Ne abbiamo discusso, oltre che di editoria, di Starnone e supermercati.

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Mi affascina l’idea di libri che nascono da un episodio remotissimo, che torna a galla dopo anni, e mi sono chiesto: se l’origine va ricercata alla scelta dello zaino? Hai sette anni, devi decidere. Quel cosa vuoi? domandato da tua madre può aver cambiato tutto? E noi crediamo che solo gli adulti debbano scegliere, ma evidentemente anche i bambini sono sottoposti alla pressione della scelta. Quanto è difficile scegliere?  Lo chiedo a te che scrivi Come farò, se il mondo è pieno di bellezza, a sapere cosa voglio davvero?

C'è molta speranza
(ma nessuna per noi)

di Nicola H. Cosentino
Guanda, marzo 2025

pp. 240
€ 18 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)

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Non so se il libro sia nato da lì, ma a lungo ha ruotato intorno a quella scena, che in una prima versione era addirittura l’incipit. Quindi hai ragione, è una scena importante. Al centro c’è una domanda: quand’è che scopriamo la bellezza delle cose? Da bambini amiamo quello che conosciamo e siamo attratti in maniera oscura da cose che ci piaceranno in seguito, ma la bellezza per come la intendono gli adulti non la capiamo, perché non sempre è primaria. La bellezza di case, oggetti, certi volti, opere d’arte passa dalla conoscenza, dalla cultura, dall’esperienza, dalla costruzione del sé… Così, scoprire la bellezza per gli adulti può essere molto difficile, e da quel momento anche desiderare diventa più difficile. Perché la bellezza si impara, è insidiosa, e può andare spesso oltre il nostro gusto e oltre la nostra comprensione. 

Nel testo scrivi: 

Ludovica, poi, povera te. Chissà chi sei, chissà che fai. Non hai mai saputo che dietro al cellulare di Rocco c'ero io, ci sono sempre stato io... Ma Ludovica, tesoro, creatrice del Cielo e della Terra, c'è un'altra cosa di cui non hai idea: il giudizio mi pesò tantissimo perché eri brutta anche tu.  

"Tuo fratello fa schifo ai morti" disse Ludovica. 

Ma Ludovica esiste? La senti mai? E quanto ti ha formato?

Ludovica esiste e non esiste, come tutto quello che c’è dentro il libro. Però sì, mi è capitato qualcosa di molto simile, tra cui sentirmi dire per interposta persona che facevo schifo ai morti, ma la ragazza che lo ha detto non so davvero chi fosse né che fine abbia fatto. Molte persone incrociate da ragazzi finiscono per essere più presenti nel nostro immaginario che nella nostra vita, e così questa ragazza che ha ispirato Ludovica. Possiamo dire che è un personaggio di finzione anche fuori dal libro.

Trovo interessante il legame tra supermercato e desiderio. Ammetti di dedicare parecchio tempo al supermercato, che dà non solo la possibilità di appagare una fantasia alimentare ma anche di congetturare sull'avvenire. Qual è il tuo preferito? E l'orario ideale? Non trovi scandaloso che Penny e Lidl (che commercializza la pizza proteica più buona sul mercato) non accettino buoni pasto?

Non ho mai avuto dei buoni pasto e non ho mai comprato una pizza proteica, anzi, forse non ho mai comprato una pizza del supermercato in generale. Ma comprendo la tua irritazione e sono pronto a sostenerla. Detto questo, non ho un supermercato preferito, alcuni sono buoni per alcune cose, altri per altre. In genere, se ho tempo o se  ho gente a cena, passo da più supermercati in una stessa giornata. Nel mio quartiere ce ne sono molti, tutti abbastanza vicini fra loro. E al sabato c’è il mercato. Mi piace passarci del tempo per una questione di progettualità, di fantasia, di colori. È una cosa che raccontavo in un pezzo uscito su «Lucy» un anno fa, quel passaggio del libro è tratto da lì. 

Questa faccenda dei desideri mi ha riportato a un video, scoperto durante la pandemia: I 101 desideri di Igor Sibaldi. Conta 4,4 milioni di visualizzazioni e teorizza la possibilità di realizzare, nell’immediato o nel lunghissimo tempo, tutti i desideri riportati su una lista. Lo conoscevi? 

Non lo conoscevo. Lo guarderò, ma non adesso, altrimenti fa un effetto un po’ strano, per il ritmo dell’intervista, no? 

A proposito di desideri, mi ha colpito molto una riflessione di Forgione, che nel delizioso (secondo me) Anni Felini scrive: era diventato uno di quei desideri che non occorre realizzare, perché soltanto ad averli ti cambiano la vita e ti fanno vedere le cose come non sono, e cioè più belle. E mi collego a un episodio che ho vissuto di recente, la possibilità di firmare con un editore da sogno che poi, però, non mi ha voluto. Il giorno della risposta negativa mi sono sentito arrabbiato ma non per il rifiuto, ma perché mi aveva tolto la compagnia di quel sogno/pensiero, che mi accompagnava durante parecchi momenti della giornata. Quindi chiedo a un esperto del settore come te: a questo punto i desideri vanno esauditi o basta solo averli? Completo la domanda con la frase che attribuisci forse a Olivia Laing o al New Yorker o a un tale su Facebook: L'idea di mangiare il sushi è sempre più buona di mangiare il sushi.

Dipende. Alcuni basta coccolarli. Prendi i desideri legati alla fede, alla vocazione: innescano i nostri movimenti, li rafforzano, indicano la strada. Anche quando non si realizza niente, garantiscono quel tipo di speranza che a volte serve ad andare avanti nonostante la logica, nonostante i nostri mezzi. Sono i desideri più importanti in assoluto, quelli per cui conta soprattutto che li si esprima, che li si riconosca.  

Ti svelo una cosa. C'era una festa di una casa editrice. Era un pretesto per salutare alcuni amici ma a me scocciava molto entrare, mi metteva disagio, ed evidentemente anche a te. Ti ho visto temporeggiare. Passare all'ingresso, abbassare il capo, andare oltre. Ti sei dileguato. Ora, magari alla festa poi ci sei andato o, che ne so, forse avevi un impegno urgente, qualsiasi cosa, ma lì ho capito che tu sei scrittore. Non chiedermi perché ma per me è stato così. Tu, scrittore, quando ti sei sentito?

Durante una call con la mia commercialista, quando ho aperto partita iva con il codice “90.03.09 – Altre creazioni artistiche e letterarie”. Se lo dice la tua commercialista, lo sei. Più in generale, quando hanno cominciato a dirlo, con costanza, gli altri. E da un po’ lo dico anch’io. Faccio sempre fatica, perché come ho scritto nel libro l’empireo dell’essere scrittori per professione si erge su una decina di cieli diversi, ma in effetti è quello che sono. (Un’altra cosa che mi costa fatica è andare alle feste, sì, e parlare per ore di cambi d’agenzia, di cambi di editore, di anticipi, di premi, queste cose qui. Quello dell’editoria è un ambiente in cui le cose che contano davvero sono, coerentemente, quelle che si leggono e si scrivono e non tanto quelle che si dicono. Mi riconosco abbastanza nella cosa che hai raccontato, quindi: io mi dileguo spesso e volentieri.) 

In un'intervista stupenda a Starnone per «Lucy», parli della sua capacità di disvelamento. È che da lui mi aspetto sempre un disvelamento. E ogni volta che lo sento parlare, così come quando lo leggo, non capisco mai se questo modo peculiare di chiarificare la realtà – insieme ironico e grave, didattico e poetico – sia il frutto di quello che altrove ha definito “un tirocinio di esito incerto” (cioè la vita) o una predestinazione. Sai che ho provato la stessa sensazione leggendo C'è molta speranza (ma nessuna per noi)? Ti voglio chiedere: com'è trovarsi a tu per tu con Domenico? E se in qualche modo ti ha aiutato nel capire in che direzione dovesse andare questo testo. 

Diciamo che mi ha aiutato a capire in che direzione dovessi andare io. Gli devo moltissimo. Lui magari non se n’è accorto, ma la cosa del disvelamento l’ha fatta anche con me, su di me. 

A proposito di scrittura, editoria. Mi ha colpito la riflessione di Emanuele Bosso che traccia le coordinate di un mondo delle presentazioni composto di tappe a spese proprie, viaggi della speranza, che trasformano chi scrive in un PR di se stesso, spesso con risultati goffi. 

Bosso scrive: 

Il bilancio economico di una presentazione letteraria è quasi sempre in passivo. Tra treni, hotel, pasti e tempo sottratto ad altro, la fatica dell'autore viene considerata un costo accessorio, una parte "non pagata" del suo mestiere. Una specie di tassa emotiva da pagare per legittimarsi nel sistema. 

Che ne pensi? E sei disposto a fare una vita da scrittore che, se fai parte dei vincenti, comporta tour, tappe, treni, aerei e se, invece, fai parte dei perdenti, comporta frustrazione, acredine, snobismo da due soldi? E poi, al netto della retorica sulla necessità di chi scrive di dover scrivere, e eccezion fatta per chi può permettersi di scrivere e basta, secondo te a chi conviene scrivere adesso?

Ma scrivere seriamente non è mai convenuto a nessuno. Nella peggiore delle ipotesi ti ammazzano, ti perseguitano, ti fanno una fatwā. Nella migliore, guadagni meno che facendo un qualsiasi lavoro d’ufficio, almeno prima dei cinquant’anni. Senza contare che gli scrittori non destano simpatia, specialmente adesso che, con l’istituzionalizzazione dei populismi, essere più acculturati della media sembra un peccato mortale, una cosa di cui vergognarsi. Sto generalizzando, ovviamente, ma scrivere è un lavoro che si basa su una fede, su una vocazione, su un’intenzione artistica, e quindi non ci si può aspettare niente di straordinario in termini di comodità. Magari le comodità arrivano, ma non le si può pretendere. Io mi ritengo abbastanza fortunato: non ho mai pagato di tasca mia per fare delle presentazioni, è da un pezzo che ricevo i cosiddetti gettoni per partecipare ai festival e girare per l’Italia mi piace molto, ma Bosso ha ragione quando dice che alcune prestazioni vengono date per scontate. Diceva qualcosa di simile Vincenzo Latronico in un articolo di un paio d’anni fa, relativamente, se non sbaglio, alle fiere. Ma dubito che la cosa possa migliorare, in Italia la cultura mi sembra sempre meno una priorità. 

Chiudo la questione autoriale con il confronto tra scrittori, a circa metà del libro. Siete candidati a un premio prestigioso, ed emergono varie tipologie di chi scrive. Tu che scrittore sei? Quando scrivi, dove? Sei solo, sul letto? Io ne ho conosciuto uno che, nelle fasi finali del suo libro migliore, giurava di non lavarsi; un altro che mangiava una volta al giorno e basta. Tu anche diventi pazzerello o mantieni una certa impostazione? E quale fase preferisci, quella in cui nasce l'idea, la fase finale, quella della proposta alla casa editrice?

Ogni libro nasce in maniera diversa. Questo per esempio ha avuto una genesi strana, è stato come sollecitato dall’interesse di una rosa di editori, e poi acquisito da Guanda molto prima che lo finissi. E devo dire che la cosa mi ha aiutato, sia a finirlo sia a godermela, sapendo che comunque era piaciuto, che comunque sarebbe uscito: è, finora, la condizione che preferisco. Per il resto sono abbastanza abitudinario: scrivo da casa, alla scrivania, e quando sto scrivendo un libro, cioè non sempre, provo a dedicargli più tempo possibile. Le fasi finali le vivo male anch’io, ho la smania di chiudere, ma nel mio caso è una smania composta, nessuno si accorge che sto impazzendo. 

I desideri si scontrano con la praticità della vita. Martina, nel libro, dice: Non è assurdo che per ottenere le cose che desideriamo si debbano fare sempre cose che non desideriamo?  E poi: Come facciamo a stabilire se una cosa la desideriamo davvero o poiché influenzati da un retaggio culturale? Esistono desideri autentici, puri, nuovi, originali, non culturali, al di là di quelli sessuali e legati all'appetito?

Esistono davvero questi desideri autentici o ciò che siamo convinti di volere è solo ciò che dice Martina? E, aggiungo, quando desideriamo qualcosa, ad esempio un obiettivo importante, siamo noi a volerla o ciò che presumiamo che gli altri si aspettino da noi si impone?

Un misto, come dice Alzata Con Pugno nel libro. La verità del perché vogliamo quello che vogliamo è insondabile, anche per questo mi interessava scrivere di desideri. Mi ha molto stupito, per esempio, che nessuno, alla domanda qual è il tuo più grande desiderio?, abbia risposto la felicità, la salute, l’amore, un buon lavoro. Ma cose più piccole e legate all’identità, al modo in cui veniamo visti dagli altri. Dimagrire, comprare casa, cose così. Perché forse la nostra felicità individuale è inestricabile dalla nostra dimensione pubblica. È questa tensione fra il dentro e il fuori a costruire le persone che siamo, e quindi i nostri desideri.  

Ho pianto a dirotto quando, chiedendomi cosa desiderassi di più, ho pensato a una persona e sua figlia e non a me. Mi sono sentito alleggerito! Ora, non ti chiedo che desiderio massimo hai, attualmente. Ma, circoscrivendo la questione alla scrittura, ti chiedo cosa vorresti fare se non fossi scrittore. 

Quello che vorrei fare sempre anche essendo scrittore: cucinare. E allontanarmi dal piano cottura solo per andare nei supermercati.  


Intervista a cura di Daniele Scalese. 

Ringraziamo Nicola Cosentino e la casa editrice Guanda per la disponibilità.