"Come ne usciremo": otto racconti/saggi per inventare un futuro migliore



Come ne usciremo
a cura di Massimo Deotto
Bompiani, febbraio 2025

pp. 156
€ 19,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)

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La prima volta che ho sfogliato Come ne usciremo (raccolta a cura di Fabio Deotto, e pubblicata da Bompiani nel 2025) sono rimasto paralizzato per alcuni minuti sulla quarta di copertina. Non sapevo ancora quasi nulla del libro e così continuavo a leggere e rileggere quel primo paragrafo, cercando di capacitarmi del suo contenuto. Vi si diceva che, secondo il World Development Report rilasciato dalla Banca Mondiale, nel 2024 le curve dello sviluppo mondiale sono finalmente tornate a puntare verso l’alto: le emissioni sono diminuite e le disuguaglianze si sono ridotte un po’ ovunque. L’umanità ha sfiorato il collasso ma sembra esserne venuta fuori. 

Com’era possibile? Come avevo fatto a perdermi questa notizia colossale? Ma poi cos’era questo ingiustificato tono trionfalistico, questa dichiarazione improvvida di scampato pericolo? Di quale mondo si stava parlando?, perché di certo non era quello in cui credevo di trovarmi io. Impallato dalle domande, avevo persino tirato fuori il telefono dalla tasca del cappotto confutare questa notizia assurda, quando finalmente il mio cervello si è risvegliato ed è venuto in mio soccorso. Gli ci è voluto un po’, come a chi si alza nel cuore della notte e deve consentire ai propri occhi di abituarsi all’oscurità prima che le cose intorno comincino a prendere forma. Però alla fine ha messo a fuoco le frasi e le singole parole. L’inghippo era tanto piccolo quanto madornale: la quarta di copertina non parlava affatto di 2024 – quella data era frutto di un mio bias cognitivo che mi costringeva a riportare tutto al presente e all’attualità – ma di 2040, ovvero di un futuro lontano, ma non troppo.

A dire il vero, per evitare tale strafalcione cerebrale – di cui forse avrei dovuto vergognarmi qui di fare menzione –, sarebbe bastato continuare a leggere e andare oltre la barriera invisibile del primo paragrafo. Poche righe più avanti si parlava infatti di «prima opera corale di speculative nonfiction, che proietta l’ombra del presente su una sponda futura». Per chi non lo sapesse, la speculative nonfiction (e qui l’uso dell’inglese è d’obbligo, non tanto per angofilia, quanto perché la definizione originale possiede un capitale di credibilità che le eventuali traduzioni non hanno ancora) è un genere che si è affermato negli ultimi anni e il cui obiettivo principale è di immaginare scenari futuri, mantenendo però le radici ben salde nella contemporaneità e nelle sue problematiche. Volendone dare qui un giudizio rapido quanto circostanziato, esso si inserisce perfettamente nel panorama letterario contemporaneo, caratterizzato molto da riflessioni teoriche e da esperimenti artistici che esplorano e forzano il confine che separa fiction e non-fiction. Collocandosi sia al di fuori della narrativa distopica, con il suo inevitabile alone di pessimismo esistenziale, che dal modello del giornalismo e del saggismo puro, deontologicamente inchiodati – almeno quando sono fatti bene – alla verificabilità dei fatti e delle ipotesi su di essi, i testi di speculative nonfiction fotografano la realtà e l’attualità aprendo il diaframma e allungando i tempi di esposizione, per lasciare che la luce di un futuro immaginario ne bruci i dettagli e ne scontorni le figure. Ciò che, negli esempi migliori, rende l’operazione stimolante è proprio il bilanciamento tra invenzione e analisi fattuale che, tenendo sotto controllo i rischi della sovraesposizione, dispiega un potenziale politico che scavalca tanto i limiti della fiction quanto quelli della non-fiction.

Tornando adesso a Come ne usciremo, dopo questo inizio vagamente goliardico, mi piacerebbe dividere la mia analisi in due parti. La prima, riguarda le intenzioni e la genesi dell’opera. Il suo curatore Massimo Deotto è da anni impegnato, sia a livello letterario che giornalistico, ad analizzare e rivelare i rischi del cambiamento climatico e del riscaldamento globale. Animato da questa volontà di denuncia ha deciso di progettare un’opera che in qualche modo mettesse insieme i due poli della sua carriera, per esporre i pericoli, le difficoltà e i cambiamenti a cui l’umanità va incontro alla soglia del terzo millennio. Rischi legati non soltanto al quadro specifico della catastrofe ambientale, ma più in generale a un capitalismo autodistruttivo, il quale, insieme a ricchezza e prosperità, produce oggi altrettante deformazioni e disuguaglianze. Nell’intenzione di mantenere, come già detto, un piede ben piantato nelle questioni più tangibili che affliggono gli anni che stiamo vivendo Deotto ha orchestrato un’opera a più voci, chiedendo l’ausilio di otto autori che come lui bazzicano la zona grigia che separa giornalismo e narrativa, animati da finalità fortemente politiche. 

Il ventaglio di nomi è variegato ed eterogeneo, eppure coerente. Attraversa le geografie e le culture, le lingue e i coefficienti anagrafici: Omar El Akkad, Vincenco Latronico, Meehan Crist, Sergio del Molino, Claudia Durastanti, Chigozie Obiome, Francesca Coin e Angela Saini – in ordine di apparizione nel volume. Ognuno di essi ha collaborato con un articolo ambientato nel futuro – tra l’anno 2033 e il 2040 – toccando aspetti diversi delle nostre società e raccontando fatti che più che inventati sembrano semplicemente non ancora accaduti, tanto sono plausibili e tanto forte è il loro legame con gli eventi di oggigiorno: mancanza di inclusività, disuguaglianza sociale, rivoluzione nel mondo del lavoro, crisi abitativa, spopolamento delle aree rurali. A rendere però particolarmente interessante la raccolta è il punto di vista e la tonalità che Deotto ha deciso di adottare, evidente già dal titolo: non un futuro catastrofico in cui l’umanità collassa sotto il peso delle sue imperdonabili colpe, ma piuttosto uno di speranza in cui essa sembra essere riuscita a redimersi e invertire la rotta. Da questa insperata posizione, gli autori ci avvertono però di quanto labile e precario sia il nuovo stato delle cose, di come il rischio di una ricaduta si annidi tra gli ingranaggi della macchina sociale e istituzionale. Il peggio è passato, ma non tutte le crepe sono state risanate fino in fondo; alcune disuguaglianze rimangono, sia nel modo in cui il benessere si è distribuito tra i vari Paesi che all’interno delle singole nazioni, e c’è una certa riluttanza da parte dei governi a fare luce sugli sbagli e le storture del passato.

La seconda parte della recensione si concentra invece sulla struttura. Gli otto saggi che compongono il libro sono racchiusi all’interno di una cornice narrativa in cui lo stesso Deotto – o per meglio dire il suo alter ego futuristico – spiega le motivazioni (sia intradiegetiche che extradiegetiche) che lo hanno indotto progettare l’opera e introduce i singoli autori e i loro lavori. Tutto questo è movimentato dal dialogo che l’autore intesse con un ipotetico nipote, appartenente alla Gen-T, ovvero quella divenuta adolescente quando il grande spavento sembrava passato e quindi più spensierata e disinvolta nei confronti del futuro. Il leitmotiv che alimenta gli intermezzi incapsula con un certo piglio metanarrativo, il senso dell’interno volume: il dissidio tra due diverse concezioni, con il bisogno di controllata spensieratezza da un lato e il monito a adottare cautela e non abbassare la guardia dall’altro. Lo zio premuroso è calato nel ruolo che spetta agli attivisti di oggi – o di ieri se adottiamo la timeline del testo –, cioè di provare a smuovere la coscienza di una popolazione che è intenta a pensare ad altro e non vuole stare a sentire le Cassandre della sventura. 

La riflessione sul ruolo dei profeti è un altro dei motivi centrali nel testo; alla figura mitologica di Cassandra Deotto preferisce quella di Nuñez, protagonista del celebre racconto di H.G. Wells La terra dei ciechi. Il personaggio è uno scalatore andino che, in seguito a una frana, finisce in un paese abitato soltanto da non vedenti. Inizialmente convinto di poter facilmente guidare una popolazione afflitta da una simile malformazione, scopre ben presto che la sua differenza, ben lungi dal renderlo più attendibile, lo porterà all’accusa di follia e all’emarginazione. Volendo forzare un po’ la mano, è possibile qui tracciare un parallelismo tra Nuñez e i divulgatori scientifici odierni, che faticano a far breccia nell’opinione pubblica soprattutto perché la portata delle trasformazioni e dei pericoli che cercano di evidenziare è troppo ampia e ardua da comprendere in pieno, per chiunque.

In questo contesto, fondere insieme la scrupolosità della non-fiction e la visionarietà della narrativa consente di spostare l’angolo di osservazione, modificare il punto di vista e riempire gli spazi vuoti lasciati dalla scienza e dalle scienze sociali con l’immaginazione creativa. Tale soluzione rende l’esperimento di opera corale di Deotto particolarmente convincente, al netto di qualche aporia dovuta al non perfetto allineamento delle sue varie componenti: gli otto racconti/saggi riescono nell’arduo compito di parlarci del presente dal futuro, deformando i piani temporali e inducendo il lettore a guardare alle varie questioni anche da un punto di vista emotivo e non solo razionale.

Come ci dice in chiusura lo stesso curatore, ognuno di noi, per andare avanti in quella giungla selvaggia che è la vita è costretto ad adottare una cecità selettiva, che disinneschi l’indole inconscia a proiettarsi nel futuro propria degli esseri umani, e indirizzi più pragmaticamente le energie su compiti circoscritti e alla portata. Sopravvenire a questo egoistico principio di sopravvivenza è complicato ma oggi sempre più cruciale: sfruttando il potere empatico della letteratura Come ne usciremo ci aiuta a sovrapporre gli sguardi – come fanno i vari autori del libro – in modo che le nostre rispettive cecità diventino tra loro complementari, che le nostre singole paure diventino riscatto collettivo, che le proteste individuali diventino rivoluzione intergenerazionale. Se il futuro è un mosaico fatto di infiniti tasselli è imprescindibile che ciascuno faccia la sua piccola parte, ponendosi obiettivi raggiungibili: non di sventare l’apocalisse e il giudizio universale, ma di alleviare il dolore che ogni singola fine del mondo provoca ai nostri simili, ai nostri fratelli e sorelle, ai nostri compagni di viaggio.

Emiliano Zappalà