di Jeanne Benameur
Edizioni e/o, giugno 2024
Traduzione di Silvia Manfredo
pp. 176
€ 17,50 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
Il protagonista di questo piccolo romanzo è Simon Lhumain, uno psicanalista, un uomo che di professione ascolta gli altri, e che, per troppo tempo, ha messo da parte la propria storia personale. In una mattina come tante, una ciotola si rompe tra le sue mani e questo gesto risuona nella sua testa come un ultimatum; ora ha capito che deve iniziare a pensare a se stesso.
Matura in lui un desiderio che lo assale da tanto tempo e decide di lasciare la città, l’isola della giovinezza, e soprattutto le parole degli altri e le loro vite.
Talvolta rivede casa sua ma è come se facesse parte di un’altra isola nell’arcipelago che potrebbe abitare e che sarebbe la sua vita. Talvolta si sente come in convalescenza, come qualcuno che ha bisogno di recuperare le forze pian piano, con precauzione. (p. 59)
Simon ha un segreto e un’amicizia perduta, è ancora profondamente legato a una donna, Louise, e a un uomo, Mathieu, che in passato sono stati per lui importanti. Non riesce a liberarsi dal peso di questi rapporti interrotti, non riesce nemmeno a guardare al futuro, che potrebbe avere l’aspetto di una giovane collega, Mathilde.
Quale sarà la meta del viaggio? Chiede al suo confidente Hervé di organizzare il viaggio in un Giappone sconosciuto, non turistico. Si ritrova così sulle isole subtropicali di Yaeyama, dove la vita ha un altro ritmo e gli abitanti rispettano antichissime tradizioni indigene; qui stringerà amicizia con i coniugi Itô. Tra stoffe pregiate, passeggiate, cocci da ricomporre col kintsugi (antica arte per riparare gli oggetti e risanarli con l’oro, restituendo loro nuova vita) e ritmi lenti, saranno i gesti a donare a Simon un linguaggio nuovo, che lo metterà in contatto con un’intimità diversa, fatta di comprensione dell’altro in un modo nuovo, che non ha bisogna di parole, ma costruisce un’alfabeto fatto di conoscenza graduale e rispetto, di condivisione e amore.
Simon sente i silenzi di tutte le persone che ha ricevuto nel suo studio. In mezzo alle parole pronunciate distintamente da Daisuke sente adesso il proprio silenzio. Capisce che è venuto fin qui per incontrare proprio quel silenzio. Non c’è parola senza silenzio. Mai. (p. 99)
A livello stilistico c’è un uso particolare della punteggiatura, con la virgola utilizzata solo per mettere una pausa o demarcare, ogni tanto, un concetto; l’assenza del virgolettato per i dialoghi arricchisce il testo, che appare quasi un flusso di coscienza. È come se ci trovassimo in una sorta di disvalore del discorso parlato, che è programmatica all’interno dell’intero costrutto della trama, e soprattutto si volessero creare dei limiti meno precisi tra discorso citante e discorso citato. Considerando inoltre che a parlare è un narratore interno onnisciente, in terza persona, si capisce come il tutto sia volto a riprodurre una sorta di affabulazione monologante.
Di ciò che resta delle convenzioni, che siano linguistiche, psicologiche, paradigmatiche di un certo modo di pensare, l’autrice si disfa, per rendere il suo Simon un protagonista che sa guardare attraverso le crepe del vissuto, del non detto, del pensato e che può infine risorgere.
Un testo poetico, intenso, intimo, che è capace di parlare al cuore e ha degli effetti curativi sull’anima. Un balsamo per chi crede nel potere dell’incontro, soprattutto quello con le proprie ferite, che vanno riconosciute, sanate e infine amate.
Samantha Viva