Vita e morte, parola e silenzio, famiglia e solitudine, ossimori portati al limite nel primo romanzo di Claudia Ulloa Donoso: “Ho ucciso un cane in Romania”


Ho ucciso un cane in Romania
di Claudia Ulloa Donoso
Polidoro editore, 21 marzo 2024

Traduzione di Massimiliano Bonatto

pp. 432
€ 20,00 (cartaceo)

Ho sempre creduto che la paura del mare fosse piuttosto la paura del cielo; di avere sopra di noi il peso dello spazio infinito con tutti gli astri e le galassie. Non temiamo la profondità perché siamo obbligati e condannati a scendere, non conosciamo altra rotta. La forza di gravità ci permette di familiarizzare con il vuoto e il sotterraneo. (pp. 408-409)

Un romanzo multitematico che diventa bifonico nella seconda metà: Ho ucciso un cane in Romania è il primo romanzo, dopo due raccolte di racconti, della scrittrice peruviana trapiantata in Norvegia, Claudia Ulloa Donoso. Si nota subito che si è di fronte a una penna talentuosa; non a caso la scrittrice è stata considerata dal Bogotá39, una delle migliori voci femminili under 40. Quest’opera è - come Ulloa Donoso tiene a precisare più volte nelle diverse interviste - essenzialmente il racconto di un viaggio, ma su cui si innestano temi come la depressione, la dipendenza da farmaci e alcool, le difficoltà nelle relazioni di coppia, la solitudine, l’amore verso i cani, la famiglia.

Le voci che narrano sono due, o meglio tre: nelle prime pagine a parlare è… un cane, che anticipa in parte ciò che accadrà alla fine e che si afferra già dal titolo del libro; poi prende la parola la protagonista, un'insegnante di spagnolo e norvegese per migranti che sorprendiamo completamente annichilita nel letto, sotto l’effetto di psicofarmaci, in attesa del suo ex studente, ora amico-amante Mihai, di origine rumena, che si prende cura di lei. Dopo oltre duecento pagine, nel pieno del viaggio in Romania, finalmente scopriremo i pensieri di Mihai direttamente da lui. Per tutta la seconda metà si alterneranno le voci della professoressa, di cui non conosceremo mai il nome, e del suo ex studente: il risultato stilistico è davvero sorprendente. La scrittrice riesce a rendere alla perfezione il flusso concitato, di registro basso, di Mihai, che in Romania vorrà farsi chiamare col suo vero nome, Ovidiu, e quello molto più intimo, pacato, riflessivo ed elegante della protagonista. Mihai-Ovidiu vuole portare con sé la sua ex professoressa per farla guarire dallo stato di letargia cronica in cui versa ultimamente, dopo una storia d’amore e di attrazione in cui lei era un’altra donna, più grande di lui, ma affascinante e viva. La professoressa accetta, ma non perché desidera sinceramente vedere la Romania, ma, semplicemente, per rimpinzarsi di clonazepam senza prescrizione medica.

Avevo sentito di gente che andava nei paesi dell’Est per comprare qualunque tipo di farmaco senza ricetta: Viagra, eccitanti, sonniferi, antinfiammatori postoperatori e perfino analgesici alla codeina. […] Preparai un bagaglio a mano con quattro cambi di vestiti, uno dei quali formali. Ebbi l’impressione che mi stessi preparando per morire e mi investì una certezza. Una specie di strana soddisfazione, quasi festiva, ma al tempo stesso grigia e silenziosa, senza stelle filanti né smancerie, simile alla tranquillità che senti nel concludere qualcosa di noto, una cosa tediosa come un lavoro durato anni, un rituale di passaggio, la fine di una attività, mettere il punto, spegnere la luce e chiudere.

Volevo scomparire. (pp. 36-37) 

A farla sembrare viva è la voglia di scomparire, di dissolversi, di abbandonarsi alla morte. Spegnere l’interruttore per sempre, mettere fine a una vita che non è più vita, ma una pseudomorte indotta dai farmaci. Nel corso del libro troveremo la protagonista in uno stato pietoso: sono pagine disturbanti, di degrado, di una crudezza tagliente, di pena senza speranza. C’è un passaggio nelle prime quaranta pagine del libro, in cui lei riflette sul binomio vita-morte, di una lucidità sconvolgente, di una bellezza che fa male per la potenza delle immagini. E vi sono descrizioni di chiaro e di scuro, di colori, di luce e di buio presenti nel grembo materno prima della nascita. Sembra quasi la descrizione del Big bang.

Siamo composti di rotture, divisioni, separazioni, allontanamenti, scismi, dispersioni, scissioni e diaspore di cellule. Siamo una scultura di cellule ridotte in frantumi, un amalgama di frammenti e schegge genetiche che formeranno un groviglio di organi e ossa necessari alla costruzione di un individuo (che continuerà a dividersi), un soggetto (separato) che finirà per decomporsi. […] 

La parete delle viscere di nostra madre prende volume, forma, colore. Nebulose di membrane, costellazioni di organi. Siamo una vescica di carne incandescente. Gas sospesi che gonfiano le cavità e le crepe del nostro fragile e variopinto organismo, miniere di cellule, carbonio, polmoni in vetro di Murano, ossigeno, tiroidi alogene, iodio, scheletro fluorescente, fluoro. Filamenti di nervi, di tendini e arterie intrecciati in funicelle arroventate e vive che pulsano e irradiano calore. (pp. 40-41)

Ho ucciso un cane in Romania è un romanzo fatto di contrasti, a partire dai due protagonisti: Mihai-Ovidiu è un ragazzo logorroico, istintivo, estroverso, ha una famiglia allargata in Romania, mentre la professoressa è silenziosa, riflessiva, introversa, sola. L’occasione del viaggio la mette di fronte a una realtà completamente nuova per lei, abituata all’ordine e al mondo asettico norvegese. Farà conoscenza con la zia di lui, che la ospiterà e la tratterà come una figlia, si imbatterà in Bogdan, cugino di Ovidiu, giovane dipendente come lei da antidepressivi e sigarette. Sarà proprio a casa di zia Viorica che a poco a poco la protagonista comincerà a sentire la necessità di nutrirsi, di lavarsi, bisogni che non sentiva da tanto tempo. 

Ovidiu però nasconde qualcosa: i primi giorni in Romania, è assente, lontano, misterioso, non dorme nello stesso letto di lei, con grande sgomento da parte della stessa zia, che aveva compreso la crisi che stava attraversando la coppia. Il lettore scoprirà, non senza sorpresa, il motivo di tale reticenza da parte del giovane rumeno, perché sarà proprio lui a raccontare la storia dal suo punto di vista. Ci saranno eventi cruciali raccontati sia dalla professoressa che dal suo amico-amante e questo conferirà alla storia una vena di completezza. 

Claudia Ulloa Donoso non si risparmia nella descrizione dei luoghi e delle tradizioni rumene e non solo: la coppia si recherà in Moldavia, perché Ovidiu deve organizzare il praznic, una cerimonia funebre con banchetto in onore del padre di lui  dopo sette anni dalla morte. In tale occasione conosceremo il fratello di Ovidiu, Petrus il suo “negativo” (p. 291)

I lineamenti erano molto simili, ma le parti scure di Ovidiu erano chiare in Petrus: aveva i capelli biondi e gli occhi gialli, la pelle color sabbia, diversa dalla carnagione di Ovidiu che sembrava sempre più pallido per i tanti inverni nordici a cui era stato esposto. (p. 291)

Il gioco di contrasti si presenta anche nell’indole dei due: Ovidiu è irrequieto, lavora, non ha figli, manda denaro al fratello, che invece vive in povertà e in condizioni igieniche non perfettamente sane con la famigliola e sembra felice così. In Moldavia la protagonista si prenderà cura di alcuni cani randagi e con uno in particolare stabilirà un rapporto speciale, che lascio al lettore scoprire. 

Leggere il romanzo di Ulloa Donoso è stata un'esperienza interessante: al di là della storia della professoressa e del suo ex alunno rumeno, al di là del racconto di viaggio, ho scoperto una penna notevole, densa, quasi carnale, che ora ti getta in faccia odori e sensazioni sgradevoli, rendendoli alle perfezione, ora ti avvolge con il velluto e il calore della sua sensualità. Tra sprazzi di luce e coltri di buio, tra Eros e Thanatos, binomio inscindibile, Ho ucciso un cane in Romania è un romanzo che mi ha tenuta incollata alle pagine fino alla fine.

Marianna Inserra