«Una colpa da espiare: il fascismo dentro e intorno a me». Gli anni di piombo (e il presente, e una storia d’amore) nell’ultimo romanzo di Valentina Mira

 




Dalla stessa parte mi troverai

di Valentina Mira
SEM, 2024

pp. 252
€ 17,00 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)

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“Allora che aspetti? Scrivi. Se pensi che abbia un senso: scrivi.”
Ha senso.
Scrivo. (p. 56)

Diverse linee, cronologiche e umane, si intersecano in questo nuovo volume di Valentina Mira, che riesce a essere, se possibile, ancora più personale e più politico del precedente. E se questo binomio pare contraddittorio, ciò può essere vero solo per chi non abbia letto X, e lo rimarrà solo per il trascorrere delle prime pagine di Dalla stessa parte mi troverai. Lo stesso titolo, del resto, tratto da una famosa canzone di Francesco De Gregori, rimanda ai temi fondamentali dell’opera: l’amore e la lotta, che sono in fondo accomunabili nella capacità di farsi implicare dalla vita, di prendere una posizione, di collocarsi dalla parte del bene.

Da un lato, nella narrazione, abbiamo infatti la storia di un grande amore: quello tra Mario e Rossella, la storia di un amore genuino, subitaneo, intensamente vissuto da due adolescenti, poi giovanissimi sposi, e neogenitori; un amore proletario, militante, che non si chiude su se stesso ma continua ad aprirsi all’impegno civile; un amore, ancora, nato sul finire degli anni ’70, quando è difficile ignorare cosa succede fuori, il piombo che sibila nell’aria; un amore per cui non si può non fare il tifo, anche se Mira non fa che ricordarci che da un momento all’altro le cose potrebbero cambiare – e così, in effetti sarà (tanti lo intuiscono prima, appena viene svelato il cognome dei due giovani: Scarponi, lei; Scrocca, lui).

Dall’altro lato, abbiamo l’autrice stessa, che a una presentazione di X, intimidita e spaesata dalla situazione, incontra una donna che potrebbe avere l’età di sua madre e ha un sorriso buono e occhi luminosi, che la fanno riconoscere subito come anima affine. Scoprirà, dopo una birra condivisa e un coprifuoco violato, che si tratta della stessa Rossella, e di quale Rossella si tratti. Ha sentito parlare della sua storia alla radio, da un giornalista che conosce e stima, uno spirito autenticamente libero, della cui onestà intellettuale si fida intensamente. L’incontro casuale pare quindi frutto di una predestinazione, di passi mossi da forze sconosciute che hanno portato due donne così diverse per età e provenienza, eppure simili (nella forza, nella resistenza, nell’esperienza della violenza che può annidarsi nel cuore umano) l’una verso l’altra, facendole sfiorare in una speciale forma di “sorellanza”: «il punto non è essere amiche, ma rendersi conto che esistono delle esperienze che possiamo avere in comune, proprio perché donne» (p. 52). Per entrambe essere femministe significa attivarsi per cause differenti, ma tutte interconnesse: «quella di genere, quella di classe, quella antirazzista, quella antiabilista, quella ecologista – e quell’antifascista, naturalmente» (p. 54).

Per Valentina, l’incontro con Rossella è un’ancora, un segnatempo, un puntello e un punto di svolta. Per questo sceglie di raccontare i fatti in cui l’altra si è trovata coinvolta, e da questo racconto esce a sua volta profondamente cambiata.

In mezzo a queste due vicende, ne viene posta una terza, antichissima eppure sempre rinnovata, quella che ruota intorno ad Acca Larentia. La radice di tutto. Secondo il mito, la nascita stessa di Roma è dovuta ad Acca Larentia. Sarebbe stata lei, la Lupa, moglie di un pastore e prostituta, a salvare e allattare i due gemelli. Romolo e Remo, cresciuti insieme, e poi opposti in uno scontro per il potere. Il fratricida e l’ammazzato. Il colpevole e la vittima. Nella genesi della città si annidano dunque l’accoglienza e la distruzione, la generosità e la ferocia, il latte e il sangue, che coesistono da allora. Ma Acca Larentia è anche il luogo di un attentato in cui, durante gli Anni di Piombo, persero la vita due membri del Fronte della Gioventù legato al MSI. È il luogo in cui da allora, ogni anno, i camerati si radunano per perpetuare la memoria – non solo dei caduti, ma anche di rituali che riportano a un’Italia che dovrebbe essere ormai sorpassata, e invece infidamente rivive. È il luogo in cui, sull’asfalto, sotto le case, è stampigliata un’enorme croce celtica. E Acca Larentia è, quindi, anche e soprattutto una ferita aperta: per la città, di cui ogni anno rivela l’anima lacerata e che ogni anno tradisce, e per Valentina, che pur abitando nel quartiere ne ha scoperto solo sedicenne le processioni, e che si sente connivente per aver avuto a che fare spesso con i gruppi neofascisti – volutamente cieca, e quindi potenzialmente complice.

Non si è trattato, nel suo caso di una vicinanza esclusivamente geografica: neofascista era quello che l’ha stuprata ragazzina; neofascista (e di una forma più subdola, quella che si nasconde) l’uomo con cui è stata per anni una volta diventata adulta. È stato proprio quest’uomo, l’errore più grave, ad averle rivelato da un lato qualcosa su se stessa, sulla sua fragilità, dall’altro a mostrarle quanto vicino si può annidare il pericolo: perché, ci dice, i fascisti esistono ancora e, anche se il loro linguaggio è cambiato per adattarsi ai tempi nuovi, non ne è cambiata l’intima natura, la sostanza.

La narrazione di Dalla stessa parte mi troverai non è lineare, ma procede per frammenti, suggestioni, in un continuo slittamento dei piani temporali – si muove infatti tra passato e presente, indagando cause e mostrando conseguenze. Trova una continuità solo nella parte centrale, quando ci riporta al dramma di Rossella e di Mario, arrestato quasi dieci anni dopo i fatti di Acca Larentia sulla base di indizi labili e trovato impiccato il giorno dopo in una cella antiimpiccagione.
Nel descrivere Rossella, Mira sottolinea a più riprese la sua attitudine a prendersi cura, degli altri quasi più che di se stessa, così come della memoria dell’uomo amato, mai pienamente riscattata dopo la sua morte. «Perché sta facendo questa cosa?» le chiede una giornalista di Rai 2 in un’intervista rilasciata poco dopo i fatti. «Perché non accada mai più», replica la vedova, nella risposta forse più importante, e tagliata nella messa in onda.

Il giornalismo si fa connivente di una riscrittura degli eventi, così come le istituzioni, e Mira, che a sua volta si è sentita tale, anche se in tutt’altra situazione, denuncia a gran voce questa ambiguità, reclama – al fianco di Rossella – un’assunzione di responsabilità. Perché, e questo è il presupposto dell’intera opera, sin dalle interferenze spazio-temporali delle prime pagine, quanto accaduto a Mario Scrocca non è lettera morta. Che si sia suicidato o “sia stato” suicidato, la violenza dietro all’evento non cambia. Se negli anni venti del Duemila il tasso di suicidi nelle carceri continua a essere elevatissimo, se la Corte europea dei diritti dell’uomo ha parlato di trattamenti “inumani” e “degradanti” riservati ai detenuti nelle prigioni italiane, significa che c’è ancora tanto da fare, tanto per cui lottare, tanto su cui aprire gli occhi («le gabbie servono anche a questo: a non farci vedere né pensare a chi c’è dentro – ma l’orrore resta. Per fortuna non tutti lo ignorano. C’è chi non sa dissuadere il proprio sguardo dal guardare», p. 141). E questa, del resto, non è che una delle possibilità, perché sulla vita di Rossella e del figlio Tiziano, che cresce interrogando e interrogandosi e, seguendo le orme del padre, inizia a «fare politica, […] politica di strada e di carne e di persone vere, insomma […] a frequentare gli spazi antifascisti» (p. 147), aleggia anche l’altra possibilità, quella più difficile (da accettare, da dimostrare), di una morte non volontaria. Non legga però Dalla stessa parte mi troverai chi spera di trovare risposte, perché non gli verranno date.

L’ultima sezione del volume si fa più stringente, metariflessiva, problematica: Valentina Mira prende la parola in prima persona, come già aveva fatto in alcune apparizioni precedenti, e rivendica apertamente la sua tesi, una tesi forte, che va di pari passo con la sua volontà di smontare la retorica vittimista sulla quale si basa l’autonarrazione che ancora induce qualcuno a portare una corona di fiori su una croce celtica» (p. 192). Da un lato, infatti, è necessario postulare una “insufficienza ontologica, psicologica e storica” dei concetti di vittima e carnefice, che vanno riletti in funzione del contesto situazionale: i fascismi attecchiscono dove il terreno è fertile, cioè dove si riscontra una situazione di fragilità collettiva, dove «alberga un misto di ignoranza e negazione» (p. 204). La “vittima” sceglie spesso di non vedere, per mancanza di energie, desiderio di autoprotezione, bisogno di affidarsi a chi si propone come “salvatore” (e questo vale tanto per gli individui, quanto per le società). D’altro canto, prosegue Mira, per interrompere un pericoloso circolo vizioso è necessario che non si lasci spazio, in nessuna forma, neanche il dialogo, a chi si ostina a perpetrare il male, la manipolazione, la violenza senza assumersene la responsabilità, a chi nega i principi fondanti di qualunque dialettica, in una continua affermazione della propria superiorità sull’altro.

Costoro non meritano risposta. Non meritano neanche perdono, ci dice l’autrice, in questo lapidaria. Perché nella tolleranza, nel perdono, nell’apertura di chi crede alla democrazia e all’uguaglianza ci può essere un pericolo:

finché ci forzeremo alla retorica del dialogo, del perdono in assenza di presa di responsabilità, e della pacificazione a tutti i costi, noi saremo in profondo, profondissimo pericolo. […] A me non interessa in alcun modo ottenere, o darmi da sola, attestati di superiorità. […] Mi interessa vivere in situazioni in cui il negazionismo non ha spazio perché noi non glielo lasciamo più. (p. 214)

Nel ridimensionare – limitatamente, com’è ovvio, al tema trattato – il concetto di vittima, Mira restituisce a ciascuno la sua facoltà di scelta, e quindi la propria libertà di autodeterminarsi. In questo è esemplare la storia di Rossella, che non si arrende al dolore, non accetta il ruolo che la società le imporrebbe, ma lotta per una verità, se la giustizia non le può essere garantita.

I giudizi, soprattutto nella seconda parte del volume, sono molto netti. Si tratta di una scelta precisa: l’autrice pare sostenere che, per affrontare temi vitali, per creare i debiti “anticorpi” sociali per un virus latente, estremamente contagioso e sottovalutato, non esista altra via che questa schiettezza. Questo ha ricadute precise sulla forma espressiva, che si fa spesso colloquiale, paratattica. Di fronte a questo procedere profondamente coinvolto, spesso emotivo, il lettore potrebbe provare (come è avvenuto nel mio caso) un senso di disagio. E certo, anche questo può essere un obiettivo dello scritto: dal disagio, dallo spiazzamento nascono gli interrogativi, che il volume pungola, istiga, smuove e ricerca, quando non li esplicita direttamente. Gli interrogativi sono ciò che ci tiene in movimento, e il movimento è vita, resistenza. Gli interrogativi obbligano a prendere una posizione e possono spingere anche chi è certo delle proprie idee a chiedersi fino a che punto siano radicate. D’altro canto, la predilezione per una forma a tratti anche molto enfatica, e che non esita a lanciare strali pungenti sul contemporaneo più stretto, potrebbe in alcuni casi confondere rispetto all’adesione al contenuto (pur senza portare mai nessuno a dubitare della validità e condivisibilità dell’intento di fondo dell’opera di Mira). Dalla stessa parte mi troverai non vuole essere un saggio, ma forse in certi passi si sarebbe giovato di una esposizione più oggettiva, soprattutto a fronte di un evidente lavoro di documentazione da parte dell’autrice.  

Carolina Pernigo