Cosa c'entrano i cani con l'arte, la politica e un chiosco di tacos? Villalobos con "Ti vendo un cane" per CentoAutori


Ti vendo un cane
di Juan Pablo Villalobos
CentoAutori, febbraio 2023

Traduzione di Giuseppina Imperatriceti 

pp. 293
€ 16 (cartaceo)


Il fatto era che tutti avevano mangiato un tacos di carne di cane, anche se non lo sapevano, tutti conoscevano il sapore di un tacos di carne di cane, anche se di fatto nessuno credeva di conoscerlo. Questo sì che era il vero paradosso: non poter scrivere di qualcosa non perché non era stato vissuto, ma perché non si sapeva di averlo vissuto. (p. 61)
Si potrebbe riassumere così lo spirito di questo romanzo di Juan Pablo Villalobos, autore messicano pubblicato in Italia da CentoAutori, un romanzo esilarante e profondo che elegge a protagonisti principali della storia gli emarginati e la loro tragicomica esistenza. 
Ci troviamo a Città del Messico, in un condominio abitato da pensionati e scarafaggi, rallegrato da piccoli incidenti domestici, liti furibonde tra i condomini e tertulie letterarie, nient'altro che circoli informali di appassionati di letteratura che si riuniscono per leggere romanzi e poi discuterne. Teo, il nostro protagonista, è un vecchio quasi ottantenne, arzillo e caustico, che si divide tra la passione tormentata per Francesca, la presidentessa tirannica delle tertulie, e quella più infantile per Juliette, proprietaria di un chiosco di frutta che rifornisce i dissidenti di pomodori, cespi d'insalata e papaye marce in nome della revolución
Teo è un ex venditore di tacos, uno piuttosto famoso a suo tempo, che passa gli anni che gli restano ubriacandosi e accogliendo in casa i personaggi più improbabili, proprio come sua madre faceva con i cani durante la sua infanzia: mormoni, bombaroli, rapitori, belle ragazze e fantasmi del passato. Grazie a vari flashback disseminati nel corso del susseguirsi dei capitoli, Teo ci parla di come è cresciuto, di che rapporto aveva con sua madre e sua sorella, ma soprattutto di che rapporto aveva col padre, artista mancato e fallito che muore sempre per finta, del rapporto con le donne (persino una che fece da modella per Diego Rivera) e con l'arte, suo grandissimo e unico amore.
Mai sposato e senza figli, da giovane Teo voleva diventare artista come suo padre, ma finì a fare tutt'altro, perché l'arte a Città del Messico non dava abbastanza da mangiare. Nel salto temporale presente, chissà perché, tutti i condomini e non solo (persino alcune autorità cittadine) pensano che stia scrivendo un romanzo, ma lui tiene a ribadire continuamente che non è vero.
Sembra quasi una litania, reiterata soprattutto da Francesca che insiste nel volerlo leggere e portare alle tertulia. Teo ci scherza, abbondando in battute a doppio senso e in bicchierini di whiskey di contrabbando, ma quella non molla, dimostrando di avere una tenacia e una pazienza anche irritanti.
"Lo sapevo! Tu non capisci questa città. Nel tuo paese chi uccide un cane viene chiamato assassino, qui quell'assassino viene chiamato sopravvissuto". (p. 219)
Se la fantomatica stesura di questo romanzo di Teo fa da leitmotiv, è la presenza dei cani che lega una pagina all'altra: i cani in questo libro sono presenti in ogni linea temporale, sono citati nel passato, mentre Teo ricorda ogni randagio accolto da sua madre, a cui dava i nomi più stupidi - Mercato perché era venuto dal mercato, Solvenuto perché era venuto solo (e qui ho riso tantissimo) - mentre ci porta indietro a quando possedeva il chiosco di tacos (di carne di cane, a quanto pare); sono citati nel presente in forma di cani morti a causa di calze di nylon, o cani dipinti in un quadro, o aggressioni di cani ai membri delle tertulie; sono citati anche su un piano onirico, in forma di sogni o di incubi e di compagni di vita del Mago, un ex allievo della scuola d'arte che Teo ha conosciuto in gioventù, grande genio pazzo come un cavallo. Insomma, il cane è una specie di slogan: a partire dal titolo "Ti vendo un cane" che viene ripetuto varie volte nel libro, sia da Teo che dal Mago, passando per cani come carne da macello, come animali da compagnia, per finire come cadaveri e persino come vittime di rapimenti.
Alla stazione dei pullman, quando ci dicemmo addio, mio padre ci chiese se avessimo un cane. Gli dissi sì.
"Occhio" ci raccomandò, "fate molta attenzione". (p. 148)
Ma perché proprio il cane e non il gatto o un cardellino? Probabilmente il cane, che nell'immaginario è il migliore amico dell'uomo, in questo romanzo viene usato come espediente narrativo e, se vogliamo, come vero e proprio MacGuffin, per legare le tre linee temporali narrate da Teo e per inorridire, far sorridere, empatizzare coi personaggi.
A chi verrebbe mai in mente di mangiare carne di cane? Beh, Teo non ne fa una tragedia, neanche se si tratta di nutrire i propri clienti, ché occhio non vede cuore non duole; e a chi verrebbe in mente di chiamare un cane Mercato solo perché girovaga intorno a un mercato? Ci ritroviamo a sorridere, no? ma anche a pensare che la mamma di Teo sia un po' suonata. E se in un sogno comparissero tanti cani quanti lo spazio può contenerne non ci sentiremmo sopraffatti? Bello un cane, due, tre, ma mille diventa un po' faticoso. 
Lo stile di Villalobos è davvero piacevolissimo, scorre come acqua e fa ridere di gusto, ma permette anche riflessioni profonde, perché, come spesso sanno fare i più grandi (o i più bravi), nascondere verità e lezioni di vita tra parole di scherzo o di scherno è la migliore via per lasciar cementare nella mente quelle lezioni. Facendoci sorridere, Villalobos ci insegna a prendere la vita con più leggerezza, ad assecondare ogni tanto le follie altrui senza cadere nella trappola dell'offesa e anche a prendere il passare del tempo per quello che è, il naturale esaurirsi delle cose.
Lo consiglio a chi ha già letto Julia Kalnay Breve cronaca di una lenta scomparsa o Paolo Nori con I malcontenti o ancora a chi, in generale, ama i racconti divertenti che hanno per protagonisti uomini anziani un po' ubriaconi e un po' pervertiti.

Deborah D'Addetta