La responsabilità dell'uomo, quando Dio nasconde il volto: "Yossl Rakover si rivolge a Dio" di Zvi Kolitz



Yossl Rakover si rivolge a Dio
di Zvi Kolitz
Adelphi, 1997

Traduzione di Anna Linda Callow e Rosella Carpinella Guarneri

pp. 133 
€ 10,00 (cartaceo)
 
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Data la brevità del volume, pubblicato non a caso nella Piccola Biblioteca Adelphi, il lettore si stupirà della densità dei suoi contenuti: non una sola storia si troverà tra le pagine, ma almeno due, forse molte di più. Da un lato quella della resistenza, inattesa, eroica, del ghetto ebraico di Varsavia, dall’altro quella dei litvak, gli ebrei lituani, cui appartiene anche l’autore, perseguitati e sterminati con particolare accanimento durante l’occupazione nazista della regione, tanto che solo il sei per cento sopravvive. È innanzitutto alla scoperta della loro tradizione, della particolarità di una comunità dotta, che ha coltivato un rapporto tutto particolare con Dio, che ci conduce Paul Bedde, il primo a ricostruire la vicenda quasi incredibile del racconto di Yossl Rakover, i mille percorsi da lui seguiti fino a imporsi come un documento di riferimento per la comunità ebraica, citato anche dal premio Nobel Isaac Bashevis Singer che ne condivideva il pensiero.
In qualche momento, e per motivi che il curatore cerca di ricostruire, la vita del testo si è allontanata in maniera nettissima da quella del suo autore, di cui per molti anni si è addirittura negata l’esistenza. L’appello accorato a Dio di un combattente nella rivolta del ghetto di Varsavia, ritrovato in una bottiglia, “tra cumuli di pietre carbonizzate e ossa umane” (p. 11), è stato infatti per molto tempo considerato una fonte reale, e su di essa è stato costruito un mito tanto consolidato ed esteso che il solo rimetterne in discussione la natura era considerato un’eresia, un pericoloso assist servito ai negazionisti. Il nome di Zvi Kolitz ha faticato a imporsi, anche una volta emerso, e le vicende legate alla prima versione del testo, più e più volte manipolato e revisionato da altre mani, recuperato e poi forse perduto per sempre, delineano uno scenario che Paul Bedde definisce, non a torto, misterioso, borgesiano.

Emigrato con la madre e i fratelli in Palestina prima della guerra, dove milita in gruppi sionisti che vogliono la creazione di uno Stato ebraico, Zvi Kolitz scopre solo molto tardi della tragedia indicibile che si sta consumando in tutta l’Europa e nel suo paese. Le voci che giungono, dapprima sporadiche poi sempre più frequenti, appaiono incredibili, insostenibili, inaccettabili. È solo sedici mesi dopo la fine del conflitto che l’uomo, in una camera d’albergo a Buenos Aires, aggiunge il suo tassello al corpus delle testimonianze. Quello che ne deriva non è frutto di un’osservazione diretta, ma di una rielaborazione a posteriori, che si avvaleva della consapevolezza non solo di quel che era accaduto a Varsavia, ma anche della reale portata della Shoah e, inevitabilmente, della lotta che altrove il popolo ebraico stava combattendo per ottenere uno spazio nella Terra dei Padri. Nasce dalla volontà di dare un contributo, di rendere conto di una visione maturata attraverso il tempo e gli studi compiuti, ma presto diventa un organismo con una esistenza propria, che viaggia per il mondo, viene molte volte tradotto, interroga chiunque incontri e chiunque lo legga si sente quasi in dovere di dare una risposta. 
Le conversazioni di Paul Bedde con l’autore, se non hanno chiarito subito le sorti del testo, hanno però in compenso aiutato di molto a comprenderne il senso, motivo per cui l’intervento critico che accompagna la narrazione le è complementare, tanto quanto il saggio, riportato in appendice, che all’opera ha dedicato Emmanuel Lévinas negli anni ‘60, esplorandone in termini suggestivi la visione teologica. 

Yossl Rakover si rivolge a Dio mostra un uomo colto nel momento che precede la sua morte. Ha passato giorni a lottare e resistere, ha visto cadere uno a uno tutti i suoi cari, poi i suoi conoscenti, infine chi combatteva al suo fianco. Ha visto morire un bambino di cinque anni con un proiettile piantato in mezzo alla fronte. Attende ora la fine come una liberazione, mentre si dice che
non è vero che Hitler ha in sé qualcosa di bestiale, è un tipico figlio dell’umanità moderna […]. È stata l’intera umanità a generarlo e crescerlo, ed egli è il più sincero interprete dei suoi intimi e segreti desideri. (p. 12)
È un uomo che ha vissuto rettamente la sua vita, obbedendo alla legge di Dio, e non intende ora rinnegarlo. Lo riconosce, anzi, più che mai, come il suo Dio, un Dio diverso da quello in nome del quale gli ebrei vengono assassinati (“credo in Te più che mai, perché ora so che sei il mio Dio. […] Se non sei il mio Dio, di chi sei allora il Dio? Il Dio degli assassini?”, p. 25). Si presenta però a Lui come chi ha un credito da riscuotere, come chi può permettersi di fargli delle domande ed esigere, se non direttamente almeno dalla Storia, delle risposte. È, come osserva Lévinas, un Dio che, nascondendo il suo volto, pone l’uomo di fronte alla responsabilità della sua fede, lo obbliga ad assumerla in maniera adulta, realmente interiorizzata, e perciò tanto più salda. “Il creditore, dopotutto, ha fede più di chiunque, ma è anche colui che non si rassegna alle fughe del debitore” (p. 90), commenta il filosofo.
Se di fronte alla barbarie tanti reagiscono rinnegando il loro credo (si pensi al dolore di Elie Wiesel, che vede Dio nel volto di un bambino impiccato a una forca), Yossl Rakover ci mostra una possibilità diversa (e altrettanto personale, come solo personale può essere qualunque forma di resistenza di fronte all’inesprimibile e all’inumano). Ci mostra la via attraverso la quale, credendo nell’Altro supremo, l’uomo può contestualmente trovare e rivendicare la propria individualità, e con essa la propria dignità. 
 

Carolina Pernigo