Deportati verso la Siberia: "Avevano spento anche la luna", il bestseller di Ruta Sepetys non smette di conquistare lettori




Avevano spento anche la luna
di Ruta Sepetys
Garzanti, 2022

1^ edizione: 2012
Traduzione di Roberta Scarabelli

pp. 300
€ 13,00 (copertina flessibile)
€ 3,99 (ebook)


Il 14 giugno 1941 è una giornata terribile per gli stati baltici: moltissime famiglie sono state deportate, perché chiunque fosse considerato antisovietico è stato aggiunto a una terribile lista di persone destinate allo sterminio di massa. Tra gli altri, ci sono i protagonisti di Avevano spento anche la luna, bestseller di Ruta Sepetys, edito ormai una decina d'anni fa da Garzanti, ma ancora potentissimo nel denunciare il calvario di una famiglia lituana, quella dei Vilkas, e di chi si è trovato a condividere lo stesso percorso.  

Prima della deportazione, Lina, io-narrante della vicenda e personaggio su cui si focalizza la narrazione, appartiene a una famiglia in vista: suo padre, Kostas, è il rettore dell'università, stimato da tutti; sua madre, Elena, è nota per la sua bellezza e per un'innata cortesia; il suo fratellino Jonas promette di crescere bene e come un bravo studente. Poi, gli uomini del NKVD piombano in casa e impongono di fare i bagagli: venti minuti dopo sarebbe cominciato il loro terribile viaggio verso l'ignoto. Caricati prima su un camion e poi su un vagone per il bestiame, Elena, Lina e Jonas si trovano ammassati insieme a tantissime altre persone, mentre non hanno notizie di Kostas. Con loro ci sono, tra gli altri: Ona, una giovane madre che ha appena partorito, e la sua neonata; la maestra Grybas; la bibliotecaria Rimas; una madre scorbutica con le sue figlie; Stalas, un uomo con la gamba rotta, e tanti altri che impareremo a conoscere nel corso della narrazione. In quello stato di ferinità, quasi senza lo spazio vitale per sdraiarsi e costretti a usare un buco nel pavimento del treno come gabinetto, i personaggi non reagiscono certo tutti allo stesso modo. Generosità o avidità, condivisione o riservatezza, speranza o disperazione, dignità o abbrutimento sono solo alcuni dei sentimenti che vediamo affiorare già nel corso di quelle settimane di viaggio. 

Perché siamo qui? E cosa verrà poi? Con queste domande martellanti in testa, i personaggi affrontano quanto il regime sovietico impone loro, senza possibilità di ribellarsi, o quasi. Anche se la posta in gioco è molto alta. Lina, con la sua passione e il suo talento per il disegno, cerca di fermare su carta visi ed espressioni, quali testimonianza per i posteri. Elena, con la sua buona conoscenza del russo, tenta di comprendere come proteggere al meglio i suoi figli e come salvaguardare anche gli altri compagni di sventura. 

Ad attenderli, c'è innanzitutto un campo di lavoro durissimo, dove si coltivano barbabietole e i deportati devono farsi ospitare in capanne fatiscenti dagli abitanti del posto, con cui è difficilissimo stringere un rapporto umano. Perlopiù gli abitanti locali cerca di approfittarsi delle scorte di cibo e di altri pochi averi dei deportati. Le ore di lavoro non si contano, così come le angherie a cui sottopongono i prigionieri i soldati del NKVD, tra cui Nikolaj Kretzkij e il comandante Komorov. Questi sono i nomi che sentiremo rimbombare più volte nel racconto, quelli da cui i personaggi impareranno presto ad aspettarsi qualsiasi capriccio o decisione improvvisa. 

Tuttavia, in questo terribile campo di lavoro, resta ancora lo spazio per l'umanità: Lina, ad esempio, impara a fidarsi del giovane Andrius Arvydas, figlio di un comandante dell'esercito lituano, interessato fin da subito a farsi amico di Jonas e a proteggere Lina, incoraggiandola e aiutandola nei suoi colpi di testa. Rinunciare alla propria razione di pane secco per qualcun altro è il massimo segno di solidarietà che si possa dare. Un po' come decidere di spartirsi i doni ottenuti dalla madre di Andrius, costretta a prostituirsi con i soldati del campo. 

Ma ecco che quando la quotidianità del campo si fa appena più prevedibile, per alcuni è ora di ripartire. Infatti, questa non è che la prima tappa di un viaggio lunghissimo (ben rappresentato in due cartine presenti all'inizio del libro), che porterà i personaggi del romanzo a vivere addirittura nella Siberia del circolo polare artico, in presenza di bufere gelate e di un inverno che minaccia di uccidere tutti i presenti. 

Benché i personaggi di Avevano spento anche la luna siano inventati, la storia nasce da una profonda documentazione, che ha portato Ruta Sepetys in Lituania a indagare e soprattutto a raccogliere le testimonianze dei sopravvissuti e degli eredi, dei superstiti dei gulag, a parlare con psicologi, storici e funzionari governativi. Dunque, tante sono le persone che si nascondono dietro i personaggi di Lina, Elena, Jonas, Kostas e gli altri. Con un linguaggio molto piano, che con la focalizzazione interna riesce a stabilire l'empatia immediata nei lettori, anche nei più giovani (consiglierei il romanzo a partire dai 13-14 anni), Avevano spento anche la luna si propone meritevolmente di portarci a parlare di quella deportazione che ha portato i paesi baltici a perdere circa un terzo delle loro popolazioni. 

GMGhioni