Di tragedie, degrado, disperazione e rinascita. James Ellroy, "I miei luoghi oscuri"

 



I miei luoghi oscuri
(My Dark Places, 1996)
di James Ellroy
Traduzione di Sergio Claudio Perroni
Bompiani Editore, 2016

pp. 488
€ 13,30 (cartaceo)
€ 6,99 (e-book)

Probabilmente solo lo scrittore che è da tanti considerato il più grande autore contemporaneo di letteratura noir poteva produrre un (capo)lavoro come My Dark Places, in cui affronta e in qualche modo esorcizza il tormento di una vita, ossia l’omicidio della madre avvenuto nell’estate del 1958, e le innumerevoli ossessioni ad esso legate che hanno segnato in modo drammatico – quasi tragico – i suoi anni dall’infanzia all’età adulta.

Sì, solo James Ellroy, quel genio visionario capace di creare romanzi fiume che agganciano il lettore alla prima pagina e lo lasciano all’ultima stremato ma soddisfatto, poteva riuscire a mettere su carta non solo la sua vita (capirai, l’autobiografia se la possono fare tutti) ma emozioni, sentimenti, paure e soprattutto le innumerevoli sconfitte caricate sulla schiena prima di scoprire di essere uno scrittore eccelso.

I miei luoghi oscuri è un memoir diviso in tre parti: la prima e la terza seguono rispettivamente le indagini avvenute all’epoca del fatto e quelle riaperte (inutilmente) a metà degli anni Novanta dallo stesso Ellroy con l’aiuto di un detective in pensione esperto in casi irrisolti; entrambe le sezioni sono narrate con lo stile ruvido e violento cui Ellroy ci ha abituati. Lo sguardo gettato sull’America degli anni Cinquanta riporta un’immagine ben lontana dagli Happy Days dell’iconografia più o meno ufficiale che narrava un mondo meraviglioso ma inesistente: l’America di Ellroy (che è quella vera) è un posto pericoloso, segnato da una violenza onnipresente e ineludibile, che prima o poi sporca tutti. Non c’è un limite netto fra buoni e cattivi nell’America di Ellroy, c’è solo qualcuno meno cattivo degli altri, vittime comprese. La sua grande capacità sta proprio nel descrivere questo mondo quasi distopico senza usare toni eccessivi e, soprattutto, senza ergersi a giudice: Ellroy descrive fatti e situazioni così come sono, lasciando poi al lettore il compito di crearsi un’opinione in merito.

La seconda parte del libro è però quella che merita la maggiore attenzione, quella che da sola dà senso a tutto il lavoro. In questa sezione Ellroy racconta la sua vita dal momento in cui, a dieci anni, viene messo al corrente – senza particolare tatto – della morte della madre; da queste pagine emerge un racconto angosciante, simile a un flusso di coscienza sul lettino di uno psicanalista. Ellroy descrive una madre anaffettiva, insoddisfatta, dedita all’alcol e alle avventure con partner occasionali,  che ha usato il figlio come arma di ricatto per ottenere il divorzio. Anche il padre, che Ellroy bambino vede come un rifugio sicuro, non è proprio una figura particolarmente edificante: gli anni passati con lui dopo la scomparsa della madre, quelli del passaggio all’adolescenza e all’età adulta, sono forse il periodo peggiore, in cui il bambino-ragazzo-giovane uomo è completamente allo sbando, dipendente da alcol e sostanze pesanti, sempre da solo tranne che per quei due-tre compagni di sventura in condizioni peggiori delle sue.

Come di consueto, Ellroy ricostruisce minuziosamente gli ambienti, le storie dei personaggi, lo svolgersi dell’azione, i retroscena. Ma soprattutto espone in modo onesto e assoluto tutto se stesso, le sue paure, le sue debolezze e i momenti più terribili e degradanti della sua incredibile vita.

Ci vuole un coraggio da leoni per raccontare queste cose. Oppure bisogna essere James Ellroy.

Stefano Crivelli