La voce di una lavandaia che oltrepassa il tempo e lo spazio in “Ciò che non lava l’acqua” di Bruno Tognolini.

 






Ciò che non lava l’acqua
di Bruno Tognolini
Ilisso, 2008

pp. 101
€ 9 (cartaceo)

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Io sono una lavandaia. Lavo i panni qui in paese per la gente che ha abbastanza denaro per pagarmi e non lavarseli da sé ( p. 9).

In quanti abbiamo sentito dalle nonne o, magari, dalle bisnonne racconti su mestieri che oggi non esistono più? Quei lavori che oggi sembrano assurdi, quasi impensabili, ma che non tanto tempo fa erano comuni sia nei grandi sia nei piccoli centri. Erano mestieri umilissimi ma che potevano, e possono, raccontarci un altro mondo e un diverso modo di pensare. Perlopiù lavori umili e semplici nei gesti, ma di profonda stima e dignità tra le persone che li compivano.

Quello che ci racconta Bruno Tognolini in Ciò che non lava l’acqua è la storia di una lavandaia, la quale, a sua volta, ci racconterà altre dieci storie tra fantasia, magia e realtà. Ed è sempre la voce della lavandaia, che ogni mattina si reca insieme con altre donne al fontanile comune, a trasportarci nelle vite, non tutte realistiche, dei personaggi che incontra o di cui sente parlare. Sì, perché lavoratori come lei, frequentemente, erano testimoni e ascoltatori attenti di altri racconti, narrati magari da terze persone.  

La lavandaia, dunque, diventa qualcos’altro: oltrepassa il proprio ruolo e lavoro per diventare una cantastorie, una narratrice ante litteram che non ha paura di «lavare i fatti con la bocca fino a renderli storie» (p. 9), talvolta arricchendole per presentarle al momento opportuno. Così anche i vestiti sporchi e coperti di macchie diventano una metafora delle vite dei protagonisti di ogni storia. Alcuni sono più difficili da lavare perché la macchia è più grande e resistente, altri invece sembrano solo apparentemente sporchi e con una semplice passata di acqua tornano lindi e puliti:

Dove c’è sporco si lava, dove c’è rotto s’aggiusta, dove servono storie si racconta (p. 37).

Sono piccoli attimi di poesia quelli che ci offre questa donna e i personaggi che animano le sue storie, le quali potrebbero benissimo adattarsi al nostro tempo e spazio perché nascosto al loro interno si cela sempre un significato universale: dalla storia di Zizì Sabonète, nella Faulà del sapone, accusato ingiustamente di molestie, è rivalutato, e soprattutto scagionato, solo dopo la sua scomparsa.

Così con queste mani lavano i vostri panni, e questa bocca i vostri malanni, compaesani. I mali di ieri lavati sono storie di oggi, che servono per affrontare i mali di oggi. Ciò che non si poteva dire allora, si può raccontare ora. Ciò che lava l’acqua, lava l’aria della bocca (p. 19).

O ancora nella storia di Zuanne Aresti, nella Fàula dei campanelli. Zuanne era un uomo burbero e solitario, che continuamente infastidito dagli scherzi dei bambini, decise una notte di aspettarli. Alla sua porta, però, non si presentarono i disturbatori ma la Morte in persona, pronta a coglierlo a causa del suo continuo bere. Zuanne  non si demoralizzò: armato di un bastone, la fece scappare.

Sono racconti allegorici ma che mostrano molte sfumature dell’animo umano, senza mai tralasciare un tocco di magia e di fantasia. Sebbene anche lo spazio, come il tempo, non sia mai precisato, non si può non assaporare quell’inconfondibile atmosfera sarda: dalle ambientazioni fino alle figure della tradizione, come quella dell’ “Ammuntadore” – una creatura della mitologia sarda che attacca le persone durante gli incubi- nella Fàula della caccia.

Ciò che non lava l’acqua è una raccolta di racconti, di fiabe e di favole, ma non tutte sono a lieto a fine perché l’autore indaga, conservando sempre un’atmosfera e un tono fantastico, anche molti temi scomodi, come l’odio, la solitudine e la vendetta. L’autore riesce quindi a sfruttare, nelle sue potenzialità narrative, la favola: quel genere narrativo che insegna qualcosa, pur non facendo mai morale. Tra le righe di queste storie, infatti, non si trova traccia del giudizio della lavandaia che si mostra sempre abbastanza distante da esprimere sentenze morali.

Scorre il fiume, si porta via le vite, ripulisce il paese dalla scoria, come un drenaggio di sangue cattivo, pieno di pepe. E il fiume chi lo pulisce? […] Io lo pulisco, noi lavandaie dei racconti, quando ci passa sotto le mani: noi siamo il filtro. E a noi chi ci pulirà? Potremo mai ritornare innocenti, dopo aver raccontato? (p. 52).

È una raccolta, dunque, sulla possibilità di salvezza, sulla comprensione profonda di avere sempre una scelta, su un mondo arcano, che, sebbene oggi non esista più, è sempre disposto a insegnare qualcosa. Sono favole per adulti che dimostrano anche la grande abilità dell’autore, scrittore per l’infanzia, di sfruttare il genere narrativo favolistico per arricchire le nostre coscienze.

Giada Marzocchi