"Perle ai porci" di Kurt Vonnegut, ovvero Del costo dell'amore assoluto nella società contemporanea


 

Perle ai porci
di Kurt Vonnegut
Bompiani, 2022

pp. 217
€ 12,00 (cartaceo) 
€ 7,99 (ebook)

Titolo originale: God Bless You, Mr. Rosewater, or Pearls before Swine
Traduzione di Vincenzo Mantovani


 
Pare molto difficile trovare una giustificazione per il comportamento di Eliot Rosewater, ultimo erede diretto di una delle famiglie più ricche e influenti d’America: all’inizio di Perle ai porci di Kurt Vonnegut lo vediamo abbrutito dall’alcol, dal cibo, da una vita dissoluta, impegnato a tenere discorsi deliranti e a dilapidare in attività apparentemente senza senso il patrimonio di cui dispone.
Nulla di strano quindi che la moglie lo voglia lasciare e che la gente lo consideri pazzo. A questo guarda anche, con cupido interesse, un giovane avvocato libanese, Norman Mushari, “figlio di un mercante di tappeti di Brooklyn. Era alto un metro e sessanta. Aveva un culo enorme, che quando era nudo splendeva come una lampadina. Era il più giovane, il più basso e di gran lunga il meno anglosassone degli impiegati dello studio” (p. 13).
Norman vede nel comportamento anomalo di Eliot una grande occasione di carriera: facendolo dichiarare incapace di intendere, potrebbe infatti farlo estromettere dalla Fondazione che amministra i beni dei Rosewater, mettendosi poi a servizio del ramo cadetto della famiglia che ne prenderebbe le redini. Inizia così una minuziosa investigazione atta a raccogliere prove.
Cresciuto da un padre ambizioso e anaffettivo dopo la morte prematura della madre, Eliot si è sentito a casa solo nella contea di Rosewater, in particolare alla caserma dei pompieri, per cui ha sviluppato negli anni una vera ossessione. Adesso lì è tornato, col solo scopo di fare del bene a quelli che a tutti gli altri, soprattutto gli arrivisti membri della sua famiglia, appaiono disadattati, falliti e approfittatori, quando in realtà sono soltanto persone deboli: “Voglio amare questi americani di scarto, anche se sono inutili e brutti. Questa sarà la mia opera d’arte” (p. 43).
I due piani ideologici in contrasto, causa di insuperabile incomunicabilità, sono evidenti nella conversazione tra Sylvia, che pur volendo divorziare da Eliot in parte ne comprende le scelte e le motivazioni, e il Senatore Rosewater, padre di Eliot:
“Eliot fa bene a fare quello che fa. È bello quello che fa. Semplicemente, io non sono abbastanza forte o abbastanza buona per rimanere al suo fianco.” […]
“Dimmi una sola cosa buona di quella gente che Eliot aiuta.”
“È un segreto. […] Il segreto è che sono esseri umani,” disse Sylvia. Guardò da un viso all’altro cercando un barlume di comprensione. Non lo trovò. (p. 63) 
Perle ai porci è forse meno “scenografico” rispetto ad altri romanzi di Vonnegut (ne trovate alcuni recensiti qui), ma come sempre l’autore riesce a toccare attraverso l’esperienza di Eliot e la mentalità dominante di chi lo circonda tematiche di vitale importanza: la seconda guerra mondiale, in cui il protagonista ha combattuto rimanendo traumatizzato e arrivando a rimettere in discussione lo stile di vita e le idee di cui era stato infarcito; ma anche il tema dell’altruismo disinteressato, incompatibile con la società dei capitali e dei consumi di cui i Rosewater sono tra i massimi esponenti: 
“Non potresti usare un’altra parola?”
“Al posto di quale?”
“Al posto di amore.”
“Esiste forse una parola migliore?”
“Era una parola che andava benissimo… Fino a quando se n’è impadronito Eliot. Ormai è rovinata, per me. Eliot ha fatto alla parola amore quello che i russi hanno fatto alla parola democrazia. Se Eliot vuole amare tutti, qualunque cosa siano, qualunque cosa facciano, allora quelli di noi che amano specifiche persone per specifiche ragioni farebbero meglio a trovarsi una parola nuova.”
Alzò lo sguardo a un quadro a olio della sua povera moglie. “Per esempio… Io amavo lei più dello spazzino, il che mi rende colpevole del più innominabile dei delitti moderni: la di-scri-mi-na-zio-ne.” (p. 76)
Nel suo estremismo dell’amore, Eliot è irrazionale, ma viene da chiedersi se esiste al mondo buon senso più buono del suo. Non a caso viene identificata come poesia la frase che lui ama scrivere nei bagni pubblici: “se volete essere amati e non essere dimenticati, siate ragionevoli” (p. 80). Del resto, se dalla contea di Rosewater ci si sposta a Rhode Island, dove nella cittadina di Pisquontuit vive Fred Rosewater, cugino di secondo grado di Eliot, che lavora come assicuratore e conduce una vita ordinaria e inconsapevole, ci si rende conto che la situazione sociale non cambia di molto. Anche lì ci sono famiglie ricchissime e giovani discendenti gravati dal peso di eredità non meritate (comunque minoritari rispetto a quelli che invece ci sguazzano comodamente). Altri tipi di vita possibile, come quella di Harry Pena, che fa il pescatore con i suoi figli, e conduce grazie alla fatica del suo lavoro un’esistenza genuina, ruvida, sono condannate al fallimento, mentre prosperano gli arrivisti, gli spietati sfruttatori del lavoro altrui, gli affaristi senza scrupoli.

“È finita,” disse lui, alludendo a Harry e ai suoi figli. […] “La gente vera non si guadagna più la vita così. Quei tre romantici laggiù non hanno senso, sono come Maria Antonietta e le sue pastorelle. […] È finita per chi lavora con le mani e con la schiena. Non servono più. […] Stanno perdendo dappertutto.” Bunny lasciò libera Amanita. Si guardò intorno, posando gli occhi sul suo ristorante, e invitò Amanita a fare altrettanto, perché lo aiutasse a contare i clienti. Il suo era anche un invito a disprezzare i clienti come li disprezzava lui. Erano quasi tutti eredi. Erano quasi tutti i beneficiari di leggi e di cavilli che non avevano nulla a che vedere con la saggezza o con il lavoro. Quattro vedove impellicciate, fatue e ciccione, risero della battuta da caserma scritta su un tovagliolino di carta. “E guardate chi vince. E guardate chi ha vinto.” (p. 149) 
Perle ai porci si configura come un romanzo a tesi in cui la trama è un po’ sacrificata al messaggio, che risulta di contro chiaro e sferzante. La denuncia è diretta ed esplicita, anche se non si trova forse l’equilibrio complessivo che caratterizza altri dei romanzi di Vonnegut. Non è un caso che l’unico momento in cui Eliot appare guarito agli occhi della sua famiglia e dei suoi rappresentanti legali sia proprio quello in cui appare impazzito, o svuotato di sé al lettore. C’è bisogno di un confronto con un altro idealista (qui rappresentato dallo scrittore di fantascienza Kilgore Trout, proiezione dell’autore stesso e figura ritornante in molti dei suoi scritti), per ritrovare un senso nel suo agire:
“Si è trattato, molto probabilmente, dell’esperimento sociale più importante del nostro tempo, perché riguardava, su scala assai ridotta, un problema i cui orrori nauseanti saranno infine universalizzati dal perfezionamento delle macchine. Questo problema è: come amare la gente che non serve a nulla? […] Col tempo, quasi tutti gli uomini e le donne diventeranno inutili. […] Così… se non riusciamo a trovare delle ragioni e dei metodi per far tesoro degli esseri umani in quanto esseri umani, tanto varrebbe […] cancellarli dalla faccia della Terra.” (p. 204)
Quello che rimane dell’operato di Eliot Rosewater è allora un implausibile, anacronistico, utopistico messaggio di amore universale, che ne fa un profeta dell’età contemporanea, ma anche uno scomodo pungolo funzionale a una caustica critica sociale.
     
Carolina Pernigo