«Si teneva stretta la propria libertà, come una cieca il buio»: il "Ritratto di giovane donna con mostri" di Pola Oloixarac



Ritratto di giovane donna con mostri
di Pola Oloixarac
traduzione di Silvia Sichel
Ponte alle Grazie, 2022

pp. 168
€ 16,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

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La copertina di Ritratto di giovane donna con mostri è uno di quei casi da manuale in cui il rapporto tra il titolo e l’immagine – in questo caso un’illustrazione di Thomas Colligan – può essere considerato valido in ogni ordine di precedenza: come in una corrispondenza biunivoca, la figura rende giustizia alle parole, e le parole, a propria volta, si fanno quasi didascalia della figura stessa. Se poi si pensa che il titolo originale di questo romanzo di Pola Oloixarac (pseudonimo dell’argentina Paola Caracciolo) appena pubblicato da Ponte alle Grazie nella traduzione di Silvia Sichel è semplicemente Mona, ovvero il nome della protagonista, la chiusura del cerchio può dirsi perfetta: chi altri riconoscere se non lei, altrimenti, nell’effige di quel volto femminile che lascia trasparire come in filigrana i segni della convivenza con entità in qualche modo non conformi all’ordine naturale? Non è forse un caso, insomma, che la casa editrice italiana abbia conservato, con poche modifiche, quella già prescelta dalla Penguin Random House nel 2019, che lo scorso anno si è anche aggiudicata il premio Best Cover 2021 by AIGA Eye on Design. Osserviamola meglio: un occhio sbarrato e allucinato, un altro fisso e inespressivo, un’epidermide a puntini e a campi di colore in cui i toni del rosso e del rosa rimandano a una qualche forma di malattia, ustione, deturpamento o scarnificazione. Se nella realtà avessimo la ventura di incontrare la donna a cui corrisponde questo viso sfigurato potremmo esserne respinti con terrore oppure attratti in modo irresistibile. Ma nulla, d’altra parte, ci assicura che questa versione dissociata di sé non  corrisponda a quella che solo lei vede attraverso lo specchio della propria coscienza in crisi. A proposito: abbiamo dimenticato di specificare che si tratta di una scrittrice. Il che, come è ovvio, aggiunge sfumature del tutto peculiari all’identità di quei “mostri” di cui si diceva.


Originaria del Perù, con un libro d’esordio di successo e molto ben accolto dalla comunità accademica americana che l’ha voluta con sé a Stanford negli anni della presidenza trumpiana, e dunque «in un momento in cui essere “donna e di colore” rappresentava, nel vademecum del bonario razzismo degli Stati Uniti, una sorta di capitale» (p. 14), Mona viene candidata al prestigioso Premio Basske-Wortz, il riconoscimento letterario più importante d’Europa nonché uno dei più prestigiosi al mondo. Il perché della convocazione a sorpresa, anche in questo caso, è presto detto: con le sue origini latine e la sua predilezione per i temi politici, civili e sociali, l’autrice è la sintesi perfetta di quell’esotismo impegnato che il gotha delle lettere ama lodare e magnificare, un insetto meraviglioso e raro come quelli che si trovano nell’America del Sud, pronto per essere infilzato e categorizzato in una teca apposita completa di cartiglio. Non c’è ragione di rifiutare l’invito, tanto più che la trasferta svedese le permette anche di prendere una pausa di qualche giorno dalla quotidianità del campus e dai relativi tormenti (colleghi, amanti e spasimanti inclusi). Per non parlare, poi, dei 200.000 euro in palio, capaci di dare una bella svolta alla vita di qualunque compulsatore di tastiera di fascia media, forse proprio quello che ci vuole per tirarla fuori dagli abusi di alcol e droghe a cui da qualche tempo si dedica senza redenzione.


Tuttavia, per quanto assuefatta a un annebbiamento sensoriale che ultimamente rende i suoi ricordi sempre piuttosto confusi, Mona non è il genere di donna incline alle facili illusioni: sa che la vittoria non è affatto scontata e che già si vocifera di un candidato più eccellente degli altri, e sa anche che questo allontanamento momentaneo dal circo universitario per «quattro giorni di intrighi e quieta disperazione» (p. 34) non è una vacanza, anche se il contesto non ha nulla da invidiare a un resort esclusivo nei pressi del Circolo Polare. Il paesino vicino al lago dove è diretta sarà l’ennesima replica di quel peculiarissimo tipo di zoo a cui danno vita i raduni della comunità scrivente, vale a dire una gabbia apparentemente dorata in cui le specie più strane, esclusive e spesso e volentieri in via d’estinzione vengono costrette in una cattività che ben presto ne azzera le pose intellettuali e ne libera smanie, pulsioni, eccentricità e paranoie. Proprio all’interno di questa bolla, in cui ora dopo ora si perde la cognizione del tempo nell’alternanza di appuntamenti istituzionali e libere uscite, Mona sente crescere un disagio (e poi un panico) fomentato da sproloqui esilaranti, dialoghi capitali che sembrano nonsense, amplessi reali o virtuali in cui confonde corpi e ricordi, segnali e corrispondenze inquietanti. Finché la memoria, come per un’improvvisa ossigenazione del cervello e non per l’ennesimo messaggio notificato da una chat invadente, non torna con tutto il dolore che solo la rimozione inversa può arrecare, e ogni discorso sui “mostri” che ha avuto modo di portare avanti in quei giorni con i suoi colleghi non assume per lei una concretezza atroce, inadatta al plagio delle parole.


Chi o che cosa è il mostro? Si tratta di chi scrive? Della scrittura in sé? Del suo sistema fatto di studiosi, critici, giurati e fruitori? Si tratta forse di tutto ciò che di deforme, abietto e repellente abita (da indigeno o da colone) il paesaggio interiore di un autore? E in che misura il personaggio di Mona, così torbido e così puro, può essere d’aiuto nel decifrare il codice capriccioso di un mondo di letterati felici di ridurre la propria personalità a un’etichetta, presenziare a convegni come qualsiasi altra categoria professionale, individuare il trend lucroso del momento e offrire agli acquirenti storie che siano categorizzabili quanto basta per avere successo sul mercato? Con una prosa esplicita e senza troppi arzigogoli, Pola Oloixarac restituisce un ritratto spietato dell’élite, dell’intellighenzia, degli happy few e della violenza che ne determina le dinamiche di settore anche (o forse soprattutto) nelle ritualità più esclusive, in cui la finta cordialità degli organizzatori e dei partecipanti – anticamera di ben altro tipo di rilassatezza – nasconde forme disprezzo reciproco e di disistima passivo-aggressiva. Un pacchetto completo, insomma, con tanto di buffet abbondanti, talk sulla qualunque, saune scandinave che sono covi promiscui e claustrofobici, karaoke liberatori, gare sportive giocate con finto spirito olimpionico e serate di gala con colpi di scena apocalittici. Mentre la vita – quella che lascia lividi e tumefazioni inspiegabili, che porta a isolarsi nel proprio bungalow, che pretende surplus di stordimento per placare la paura di stare al mondo, che cerca il panico della persecuzione per godere di un eccitamento catartico, la vita, insomma, che fa di chi la vive un essere umano degno di contatto e di compassione – sta ovunque fuorché tra le pagine. Forse, nel caso di Mona, in quel Sudamerica in cui le donne – le bambine – scompaiono e muoiono a decine ogni giorno, mentre le voci della loro generazione cianciano altrettanto volentieri di poesie negli spot dei marchi del lusso in cambio di un foulard di seta o di un profumo. 


Irritante, fastidioso, perfido di quel veleno che non sembra prevedere rimedi o antidoti che non siano peggiori del male, questo romanzo di Pola Oloixarac si legge con un sorriso che prende pieghe amare, all’ingiù, lo stesso che nelle ultime pagine si muta nel cerchio di un Oh! per lo stupore di un epilogo totalmente inatteso. A chi (da vicino o da lontano) già osserva il mondo delle conventicole accademiche e letterarie con un sopracciglio scetticamente inarcato, Ritratto di giovane donna con mostri regalerà pagine di pura agnizione: esilaranti, grottesche, patetiche, tragiche. L’autrice ha mirato con precisione sotto la cintura di un corpo già piuttosto ammalorato, decisa a colpire il ventre molle del settore, laddove, in ossequio al calcolo e al tornaconto, vigono i divieti della connivenza, della malafede e della reticenza: ovvio che faccia male, soprattutto se i colpi sono assestati con l’intelligenza di chi conosce tutte le regole del combattimento e sa come trasgredirle senza farsi squalificare, e anzi guadagnando punti su un avversario che conosce come le sue tasche (un avversario che le somiglia o che vuole che le somigli). E se scrivere un saggio, un breve pamphlet polemico o un ancora più breve articolo sugli stessi argomenti avrebbe conferito alla prosa un tono prevedibilmente saccente, moralista e risentito, la scelta della finzione narrativa – forte anche della focalizzazione ancorata a un personaggio problematico e non troppo lucido, e del meccanismo speculare garantito dalla doppia valenza del ruolo dell’insider – si rivela l’opzione vincente proprio per la non necessità di una proposta conclusiva che sia alternativa allo stato dell’arte descritto, e dunque formulata con rigore logico e argomentazioni critiche. In quel finale così spiazzante, con cui la scrittrice-giocatrice sembra scegliere di ribaltare il tavolo con tutte le carte e le fiches per chiudere bruscamente la partita senza possibilità di rivincita, ci sono le utopie, i desideri, i vagheggiamenti più improbabili: tutto ciò di cui si alimenta l’assenza di risposte, e tutto ciò di cui si nutre la letteratura per essere un molto opportunamente mostruoso punto di domanda.


Cecilia Mariani