Un viaggio fatto di incanti e turbamenti: con Attilio Brilli tra i marmi e le carte, sulle orme di "Venere seduttrice"



 
Venere seduttrice.
Incanti e turbamenti del viaggiatore

di Attilio Brilli
Il Mulino, 2022

pp. 184
€ 15,00 (cartaceo)
€ 10,50 (ebook)

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«Triste, annoiata e asciutta / Sarei la tua Venere storpia / Triste, annoiata e asciutta / Io sarei un’inutile preda». Così cantava, nel 1997, la Carmen Consoli dell’album Confusa e felice: era questa la sua Venere, il ritratto (peraltro assai fiero) di una donna non conforme alle aspettative (o alle pretese) di un uomo capace di stringere solo legami sentimentali mediocri, fatti di molta apparenza e poca sostanza. Dunque quale migliore figura, se non quella della dea dell’amore e della bellezza per antonomasia, per costruire l’antifrasi? Un riferimento talmente “classico” da essere, per l’appunto, sempre “moderno”, attuale, popolare, perfettamente a suo agio anche in un brano rock di fine Millennio in cui il mito greco (opportunamente deformato o, se si vuole, per l’appunto, “storpiato”) diveniva quasi correlativo oggettivo di una femminilità fuori dagli schemi importunata dalle mire di un corteggiamento maldestro. Perché, al contrario, questo era (ed era stata per secoli) Venere: un simbolo eterno di seduzioni e delizie muliebri tanto terrene quanto spirituali, un’immagine così incantevole da riuscire a resistere all’avvento del monoteismo sul paganesimo, a tornare in auge con Umanesimo, Rinascimento e successive declinazioni del classicismo, capace di opporsi o convivere in vario modo non solo rispetto alle censure della religione ma anche a quelle – mortificanti o ferali – di tipo rappresentativo e narrativo.

Tra le molteplici espressioni del fascino della dea, quella posta al centro di Venere seduttrice. Incanti e turbamenti del viaggiatore, appena uscito per Il Mulino, è di tipo squisitamente “attrattivo” e “dinamico”. Il suo autore Attilio Brilli, uno dei massimi esperti di letteratura di viaggio, è difatti andato indietro nei secoli per raccontare fortune e avventure di alcune tra le Veneri più famose della storia dell’arte, per mostrare quanto esse siano state capaci di “muovere” gli uomini e le donne che di volta in volta ebbero la ventura di scoprirle, possederle, studiarle, misurarle e addirittura immedesimarsi in loro. Un itinerario che arriva fino al primo Novecento, al surrealismo di Salvador Dalì e al modernismo di Ezra Pound, ma che ovviamente non può non partire dall’epoca del Grand Tour, quando la tappa italiana dei “pellegrini” stranieri, notoriamente finalizzata all’ammirazione della statuaria antica, aveva tra i suoi soggetti prediletti proprio la Giunone latina, detentrice di malie peculiari e irresistibili. E se la prima parte della trattazione è tutta dedicata a quelle che il professore definisce le Veneri di marmo, la seconda riguarda invece le cosiddette Veneri di carta, ovvero tutte quelle trasposizioni narrative in cui la dea, costretta a farsi “parola” per sopravvivere alla temperie culturale romantica che mise nuovamente in crisi i canoni della classicità, diviene personaggio (e non di rado piuttosto negativo se non demoniaco) al centro di vicende ora inquietanti ora nostalgiche calate in atmosfere al crocevia tra il macabro e il sovrannaturale:
«seguire l’immagine scolpita, dipinta o narrata di Venere – Venere di marmo o di carta – e le sue vicissitudini raccontate dai viaggiatori» scrive Brilli – «è come compiere un viaggio singolare nella storia della cultura figurativa e letteraria moderna e in quella del gusto» (p. 17).
La suddivisione in due branche è evidentemente utile al professore per rendere conto dello sviluppo di un differente atteggiamento da parte dei “fruitori” e dei “cantori” della dea: mentre il viaggiatore, nella sua estimazione del manufatto lapideo, appare sempre affetto da una sorta di “sindrome di Pigmalione” e desidera istintivamente l’animazione delle forme marmoree – al punto che vorrebbe stemperarne la freddezza con il calore della vita e bramerebbe avere un contatto diretto con la summa e il simulacro della bellezza femminile – tutto cambia di segno nella simulazione letteraria, laddove proprio le statue, tornate davvero in vita, «esercitano un potere nefasto, deleterio, se non letale nei contesti ambientali con i quali interagiscono» (p. 14). È così che Venere, di nuovo tra gli umani, «trova una veste congeniale nella diffusa immagine della femme fatale, voluttuosa, altera, malvagia, piena di fascino estasiante e venefico, capace di esercitare un sadico dominio sull’incauto amante» (p. 15), con tutto ciò che ne consegue in termini di deliri, allucinazioni e messa in discussione dell’ordine, dei legami e dei valori vigenti. Un cambio di segno di non poco conto, come si intuisce, e di cui il professore rende conto attraverso l’analisi di testimonianze, resoconti, lettere e materiale letterario tout court.

Ecco dunque spiegate la fama e la fortuna delle statue più rinomate, chiacchierate, consumate di sguardi e non meno di vere carezze – tra le altre: la Venere dei Medici, la Venere Capitolina, la Venere di Milo, la Venere Vincitrice (ritratto canoviano di Paolina Borghese, moglie del principe Camillo e sorella dell’imperatore Napoleone), la Venere nel bagno o Venere accosciata (di cui si innamorò Percy Bysshe Shelley), la Venere di cera (ammirata con profondo turbamento da Elisabeth Vigée Le Brun a Firenze nel Gabinetto anatomico della Specola), la Venere colorata (esposta alla seconda Esposizione universale di Londra del 1862) – ma anche di dipinti caposaldo della tradizione figurativa occidentale: basti pensare che la Venere di Urbino (1538) di Tiziano Vecellio (il cui dettaglio del primo piano ci guarda dalla copertina del volume) incantò così tanto George Gordon Byron che la volle riprodotta in affresco, insieme con la Danae dello stesso pittore, in una delle stanze che per un periodo si trovò a occupare Palazzo Guiccioli a Ravenna. E non meno ricca, nel trattare delle Veneri “cartacee”, è la casistica – da Henry James a Aubrey Beardsley – riguardante racconti in cui le statue, perduto il primato dell’ammirazione incondizionata da parte degli uomini, tornano all’azione in senso negativo, virando la dolcezza artistica ed erotica in un veleno che avvince le anime e non di rado anche i corpi: come nella novella La Vènus d’Ille del 1837, di Prosper Mérimée, in cui una statua in metallo rovina l’unione tra due amanti, uccide l’uomo, porta la donna al delirio e continua a perpetuare morte – fa gelare le vigne! – anche una volta fusa e trasformata in campana.
 
Libro ricco di suggestioni ma tutt’altro che vago, questo di Attilio Brilli è un bell’esempio di saggistica transitiva, quella che, pur nel rigore dei riferimenti e dell’argomentazione, arriva al lettore grazie alla piacevolezza di una narrazione sgravata da lambiccamenti fini a se stessi, ingombranti note a più di pagina e altri apparati di tipo troppo specialistico: come se il libro, in perfetta armonia con il suo argomento, volesse a sua volta ammaliare, trasportare, far sognare e viaggiare. Ciò non ne limita, ad ogni modo, l’utilità per ragioni di studio e approfondimento (non manca la bibliografia essenziale), e non ne depotenzia l’impostazione raffinata. Al contrario, tra le righe di Venere seduttrice, tra le evocate linee delle sue trasposizioni statuarie, grafiche e letterarie, si scorge l’orizzonte di un territorio sinuoso, da continuare a esplorare con curiosità e ammirazione, sia dentro che fuori dai libri. Come se tra queste pagine, in cui pure non mancano le riproduzioni a colori e in bianco e nero di statue e dipinti, si celasse insomma l’invito a una riscoperta dal vivo di quegli stessi esemplari che tempo addietro fecero innamorare i loro cultori: un’esortazione a seguire Venere in senso spirituale e in senso concreto, ricercando i benefici del suo segno e facendosi pellegrini nelle sue attuali sedi e residenze:
«nelle sue diverse reincarnazioni, Venere richiede comunque di essere osservata da uno sguardo disposto a comprendere e interrogare un arco temporale che incorpora, ma allo stesso tempo trascende, le rivoluzioni culturali e le mutazioni del gusto, per godere di un ancestrale archetipo di ideale bellezza femminile, perdendosi nei suoi occhi vuoti, disinteressati all’occasionalità del momento, e lasciandosi sedurre dal suo enigmatico sorriso interiore che sembra in connessione con l’eternità» (p. 18).


Cecilia Mariani