"494. Bauhaus al femminile": Anty Pansera e "il soffitto di vetro" delle donne che animarono la scuola di design più famosa del Novecento


494. Bauhaus al femminile
di Anty Pansera
Nomos Edizioni, 2021

pp. 306
€ 24,90 (cartaceo)

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Timeo Danaos et dona ferentes, ovvero “temo i Greci anche quando recano doni”: così si pronunciò il sacerdote Laocoonte a proposito di un certo cavallo di legno spacciato dai Greci per opera di devozione, ben sospettandone la vera natura di trabocchetto bellico e prevedendo, di lì a breve, l’infelice sorte dei concittadini troiani (quanto a lui, come è noto, morì poco dopo insieme con i due figli, assalito dai morsi e dalle spire di due serpenti che gli impedirono di commentare e agire oltre). Ecco: se si volesse trovare un parallelismo di epica memoria per il libro di Anty Pansera (www.antypansera.it) dedicato alle figure femminili che animarono il Bauhaus, appena uscito per Nomos Edizioni, viene in mente proprio l’episodio cruciale del gigantesco equino gravido di guerrieri pronti all’assalto al momento opportuno. Ma non, si badi, per una retorica interpretazione di queste donne alla stregua di combattenti nemmeno troppo in incognito, bensì proprio per la natura stessa del volume: perché ci si illude, difatti, di avere tra le mani una pubblicazione tutta virata “in rosa”, esclusivamente mirata alla valorizzazione delle leggendarie giovinette che frequentarono la mitica scuola di design del primo Novecento, e invece non c’è quasi pagina in cui proprio la leggenda egualitaria e il mito inclusivo della “creatura” che fu di Walter Gropius non vengano meno alla prova del nove dei documenti, delle testimonianze, dei fatti. Si crede, insomma, di stare per leggere una rassicurante agiografia dell’istituto e delle sue discepole, quando invece sarebbe meglio prepararsi alla caduta di qualche divinità, anche quando queste corrispondo ad alcuni dei più importanti e celebrati esponenti del Novecento artistico.


494. Bauhaus al femminile è dunque, in questo senso, un perfetto “cavallo di Troia”: se nulla, nemmeno il retro di copertina, ne fa inizialmente sospettare il cuore “polemico”, ecco che, contro ogni più rassicurante vulgata, le vicende delle 475 studentesse, delle 11 docenti, delle 6 donne “intorno” a Gropius, dell’unica manager e dell’unica fotografa della scuola (per un totale, per l’appunto, di 494 figure) si rivelano esempi di una cultura ancora intrinsecamente condizionata da sessismo e pregiudizi di genere. E perché questa verità si riveli, peraltro avvalorando tesi già variamente diffuse e sostenute a riguardo, ad Anty Pansera basta semplicemente rendere conto, una per una, delle storie di queste allieve, maestre, professioniste, talvolta compagne di uomini divenuti ben più illustri di loro. Non c’è voluto poi molto, insomma, perché un’esperienza partita con le migliori promesse si trasformasse in «un’occasione persa di concretizzare l’uguaglianza di genere proclamata nello statuto» (p. 12). Lo nota, nel suo intervento prefatorio, Daria Grimaldi, docente universitaria di Psicologia Sociale delle Comunicazioni di Massa e di Psicologia dei gruppi, trovando, tra le altre considerazioni, l’espressione più giusta e tristemente familiare per sintetizzare quanto si verificò in quello che si proponeva di essere un laboratorio rivoluzionario:


«la nota metafora del “soffitto di vetro” ben spiega quanto accaduto alle donne del Bauhaus (e alle donne più in generale, oserei dire), rappresentando in modo efficace il modo in cui gli ostacoli d’accesso per mere ragioni di genere vengono resi concreti e tacitamente accettati dalla cultura a tal punto da essere introiettati, troppo spesso, come inevitabili dalle donne stesse. Si tratta di una forma sottile di discriminazione di natura complessa, perché coinvolge più ampiamente anche i ruoli e le aspettative, che materialmente rende difficile scalare posizioni di maggiore prestigio o responsabilità o ottenere riconoscimenti, allo stesso livello degli uomini, nei contributi alla cultura, indipendentemente dalla loro area» (pp. 13-14).


Storico e critico del design, Compasso d’Oro alla carriera, autrice di numerose pubblicazioni, docente universitaria, curatrice di rassegne, convegni e archivi, Anty Pansera ha dunque scritto un libro che grazie all’analisi e all’incrocio delle fonti e dei documenti restituisce memoria e rispetto a una molteplicità di figure femminili finite nel dimenticatoio, ma forse già destinate a quella sorte anche e soprattutto dalle logiche dell’istituto che le immatricolò. Innanzitutto perché una scelta quasi obbligata attendeva le Bauhausmädels al termine del Vorkurs, il corso propedeutico di sei mesi frequentato dalla totalità degli iscritti: optare per il laboratorio di Tessitura o tutt’al più per quello di Ceramica, destinazioni giudicate opportune e conformi all’ingegno e all’impegno delle studentesse (oltre che alla loro prestanza fisica), e per questo ampiamente caldeggiate dagli stessi docenti, che viceversa ne scoraggiavano l’ingresso nelle officine dei Metalli, di Pittura su vetro e murale, di Falegnameria, di Design della comunicazione, di Tipografia, di Grafica pubblicitaria (per non parlare, poi, delle più ambiziose tra tutte, quelle che avrebbero voluto dedicarsi all’architettura). Un’impostazione, questa, che, come si vede, oltre a contraddire i proclami di indifferenza di genere del Bauhaus, mostrava la persistenza di stereotipi, pregiudizi e categorie di pensiero e di azione animati da pura e semplice misoginia.


Pansera dà conto di come questo andamento abbia segnato il passo della scuola praticamente per tutti i quattordici anni della sua attività (1919-1933), nell’avvicendarsi dei direttori (Walter Gropius, Hannes Meyer, Mies van der Rohe) e in ogni sua sede (da Weimar a Dessau a Berlino), e lo fa descrivendo il funzionamento complessivo dell’istituto (a cui è dedicata la prima parte del libro) e soprattutto conducendo un’analisi specifica di quanto accadeva nei laboratori, trattando di ciascuno in un capitolo a parte. Così, in un libro in cui i numeri sono importanti al punto da essere presenti già nel titolo, basta fare attenzione alle proporzioni per comprendere quanto ingiusto sbilanciamento abbia segnato quelle vocazioni, quelle attitudini, quei destini: alle sessanta pagine di Weberei o della Tessitura fanno, difatti, da eloquente contraltare le poche unità o le pochissime decine delle altre sezioni, e non è certo un caso (anche solo per incidenza statistica) che i nomi femminili più noti del Bauhaus siano legati proprio a questa branca di applicazione (basti pensare, a titolo d’esempio, alle sole Gunta Stölzl e Anni Albers).

L’autrice, ad ogni modo, vuole rendere giustizia a tutte coloro che in quelle aule e in quei campus trascorsero anni o solo pochi mesi (c’è anche chi si ritirò), con esiti maldestri o dando prova di vero ingegno, ma dimostrando come quella immatricolazione andasse di fatto a coincidere con una scelta di vita, con una devozione nei confronti della missione rivoluzionaria della scuola e con un connubio tra pubblico e privato che innumerevoli volte si concretizzò in relazioni sentimentali (matrimoni e non rari divorzi) con i compagni di corso. Vicende biografiche e curricolari a volte soltanto accennate per penuria di documentazione e spesso destinate a incontrarsi tragicamente con il nero della Storia, ma che lasciano sempre intuire l’esistenza di mondi interiori fatti di desiderio di autodeterminazione, amore per il progetto (progetto “esistenziale” e progetto “tecnico”) e soprattutto fiducia in una società e in una cultura finalmente nuove e moderne.


Volendo trovare un eventuale difetto al libro, questo potrebbe forse riguardare le questioni stilistiche: l’andamento “veloce” e spesso paratattico privilegiato dall’autrice, con sintassi e formule espressive tese in qualche modo a snellire e a schematizzare la grande quantità di fonti e dati (ricorrente soprattutto il nesso “a” + infinito del verbo), risponde senza dubbio all’esigenza di informare e rendere conto di una molteplicità di storie e accadimenti, ma così facendo, a tratti, qualcosa va inevitabilmente perduto a un livello più narrativo e descrittivo, insomma di puro racconto. Per certi versi ciò potrebbe essere funzionale proprio all’intenzione di Pansera, che qui non vuole né evocare né romanzare e nemmeno “smascherare”, bensì fare in modo che la verità si sveli da sé, senza bisogno di troppi orpelli retorici di bella scrittura. Il libro, ad ogni modo e contro ogni fraintendimento, è tutt’altro che una mera accumulazione di riferimenti anagrafici, estremi spazio-temporali e curriculum vitae: evidentemente, anche l’apparente freddezza dei dati si fa a sua volta portatrice di un messaggio, di cui il lettore è invitato a prendere atto per fare le sue considerazioni. Affinché ciò accada, l’autrice e Maria Teresa Chirico, che è curatrice della bella infografica che permette di avere sott’occhio tutte le Bauhausmädels già nei risvolti di copertina, gli mettono a disposizione contenuti e strumenti di consultazione, con apparati che oltre alla bibliografia, alla sitografia e all’indice dei nomi includono uno schema di verifica rapida in cui ogni figura femminile è schedata con nome, cognome da nubile e da sposata, diminutivo o nome d’arte, anno, luogo e data di nascita e di morte, numero di matricola e periodo di frequentazione della scuola.


Libro utilissimo per fini di studio e di ricerca, 494. Bauhaus non può mancare nelle biblioteche di chi si occupa del design e della sua storia, ma anche di chi è sensibile alle problematiche più che mai attuali delle questioni di genere e al ruolo delle donne nell’ambito dell’arte e del suo sistema. I nostalgici e i laudatores temporis acti, quelli più affascinati dall’aura gloriosa che per molteplici ragioni ha a lungo aleggiato (e ancora aleggia) sull’istituto, lo chiuderanno forse con un bel po’ di disincanto e di disillusione, ma se non altro con la rafforzata consapevolezza di quanto, a distanza di decenni, sia ancora profondo il divario tra uomini e donne quando si tratta di affermazione professionale e riconoscimento del proprio contributo, soprattutto in un settore caratterizzato, ieri come oggi, da dinamiche non propriamente oggettive e non prive di autoreferenzialità e conventicolismo. La cifra palindroma che dà titolo al libro è il monito perfetto di come ogni esperienza, e senz’altro quella delle donne nel Bauhaus, possa essere letta in due direzioni opposte e contrarie senza perdere di verità in nessuno dei casi: al lettore l’invito a tenere conto di entrambe, e magari a trovare in una terza e ulteriore lettura la chiave migliore per la proposta di un cambiamento ancora oggi tanto auspicabile quanto difficile.

Cecilia Mariani