Non si può colpire un uomo in eterno: "La rivolta degli appesi" di B. Traven


B. Traven Rivolta degli appesi

 
La rivolta degli appesi
di B. Traven
WoM Edizioni, gennaio 2022
 
Traduzione di Debora Barattin 

pp. 256
€ 20,00 (cartaceo)


«Ma, jefe, cos'altro potevo fare? Li ho frustati come cani, fino a staccare loro la pelle dalla schiena. Ma si sono presto abituati. Più li colpivo e meno consegnavano». 
«Ti avevo pertanto detto che abusare della frusta non serve a nulla. Si intestardiscono, si sdraiano e non fanno più niente. Perché non li hai appesi più spesso? Noi facciamo così nei nostri campi. È molto meglio, li spaventa e impedisce che si ribellino». (p. 51)
La vita degli indiani nel Messico degli anni Dieci, in un modo o nell'altro, finisce sempre così: per debiti o necessità di prestiti, offrono la loro forza lavoro nelle monterie, i campi di abbattimento del legname, dove per pochi pesos vivono in schiavitù, torturati e seviziati al minimo sgarro, fosse anche quello di non riuscire ad abbattere quattro tonnellate di legna al giorno. Succede la stessa cosa anche a Cándido, indiano tsotsil, che per avere i soldi per far operare la moglie compra a se stesso e a i figli un biglietto di sola andata per quell'inferno in terra. Le frustate – per gli uomini – e gli stupri e le sevizie – per le donne – sono il minimo che possa capitare. Il peggio è l'essere appesi agli alberi, tormentati da bestie e parassiti, divorati dalle formiche e dalle mosche, pronti il giorno dopo per lavorare con più lena. Quello che però i tiranni non riescono mai ad afferrare è che più si appesantisce il carico, più si nutrono i semi della rivolta. Tutto quello che è stato dispensato un tempo, frustate, taglio delle orecchie, ritornerà con gli interessi di un popolo portato allo stremo.
 
Pubblicato a Zurigo nel 1936, La rivolta degli appesi racconta delle condizioni di vita della forza lavoro nel Messico dell'ultimo mandato di Porfirio Diaz e della conseguente rivolta che avrebbe visto l'emergere di figure quali Pancho Villa ed Emiliano Zapata. L'autore è il misterioso B. Traven. Misterioso – anche se lui detestava questo aggettivo – perché la sua reale identità non è mai stata del tutto provata. Lo si sovrappone a molti altri autori – due su tutti il "Bitter Bierce" o Jack London – ma chi fosse veramente resta avvolto nel mistero. Per sua stessa dichiarazione, riteneva inutile che i lettori sapessero di lui in quanto persona: erano le sue opere a dover parlare, senza curiosità dannose sulla sua persona. Di lui possiamo quindi desumere che non fosse un gran sostenitore del sistema economico capitalistico (e qui trovate la recensione alla raccolta di racconti Coriandoli il giorno dei morti che esprimono molto bene questo concetto) e che avesse simpatie per i movimenti anarchici e di rivolta, come questo romanzo sottolinea, pur senza alcuna pennellata naif nel suo sguardo verso qualunque movimento di ribellione.
Cándido, l'indiano con cui la storia si apre, è solo uno dei tanti disgraziati che, a causa di debiti, ha dovuto vendere se stesso e i figli come forza lavoro. Ben lontano dall'essere un eroe in senso classico che trova il coraggio di emergere dalla condizione di schiavitù in cui si trova a vivere e che gli costa ben più delle semplici torture, è un vinto. Ma sarà la sua particolare situazione ad accendere il fuoco della rivolta soprattutto perché è circondato da persone più energiche di lui, in particolare la sorella Modesta e Celso, altro lavorante più avvezzo alle condizioni disumane in cui Cándido mette piede. "Salvati da solo, fratello, e allora il tuo salvatore arriverà" gli dice seccamente a sconfessare qualunque intervento che noi sia la loro iniziativa quando la misura sarà arrivata al colmo.
È molto lungo, su tutta la durata del romanzo, il periodo di sottomissione dei colgados, gli appesi. Lunghe sono le pagine in cui non si risparmia alcun dettaglio sulle condizioni dei puniti:
Gli occhi degli appesi erano enfi e pieni di sangue. I corpi, gonfi anch'essi, erano coperti da morsi di formiche rosse e punture di zanzare. Centinaia di zecche di tutte le dimensioni erano penetrate tanto in profondità che le loro teste erano affondate completamente. (p. 70),
sui "giochetti" che i capataces, i capi della monteria, amano fare:
Verso le undici del mattino prendono il malcapitato, lo portano in un luogo in cui non si sono né alberi né altro riparo, lo denudano, gli legano mani e piedi e lo seppelliscono nella sabbia ardente fin sopra la bocca, lasciandogli fuori solo il naso, gli occhi e la parte superiore della testa, e tutto questo sotto le tenere carezze del sole. (p. 71),
né sull'indifferenza dei padroni che si ricordano di slegare i prigionieri solo dopo la loro razione di alcol, cibo e prostitute e solo perché altrimenti il giorno dopo non sono in grado di lavorare.
La lunghezza della sopportazione, con un crescendo di violenza decritta senza alcun cedimento verso il gusto dell'orrido, ha due motivazioni: la prima è che gli indiani vengono descritti come robusti e in grado di sopportare qualunque cosa, sia essa il carico di lavoro eccessivo o la schiavitù. La seconda è perché stanno apprendendo quanto i padroni fanno per poi replicarlo nel momento della rivolta.
Nello stesso momento, con rapidità e agilità felina, Urbano fece il giro completo dell'albero, passando il lazo attorno alle cosce di don Acacio, tirò la corda, strinse i nodi e la passò attorno alla testa del prigioniero immobilizzandogliela. (p. 96)
Solo chi ha patito lo stesso trattamento sa come replicarlo alla perfezione e anche se il tentativo di Urbano, schiavo fuggitivo, sarà incompleto, sarà il primo passo per l'applicazione di una spietata legge del taglione.
Ma c'è un rovescio della medaglia in questo apprendimento: quando si passa dalla parte dei rivoltosi e di chi può detenere il potere, si acquisiscono anche gli stessi difetti. Il Professore, un insegnante costretto nelle miniere d'argento e nei campi di prigionia prima che nella monteria per le sue idee avverse al porfiriato, lo analizza con grande chiarezza quando la marcia dei colgados arriva a liberare una fattoria.
«L'istinto di possessione, l'idea di proprietà, sono ora radicati ancor più profondamente di prima in questi ranchos. È cambiato solo il nome del proprietario [...] Ieri il padrone si chiamava Chucho, oggi si chiama Eusebio, e domani sarà Florencio. Vi saranno sempre dei nuovi signori, nulla è cambiato qui. (pp. 246-47)
Una rivoluzione non dovrebbe portare nessun vantaggio personale al ribelle, solo la nascita di un nuovo mondo più giusto e più pulito. Ma né il Professore né Traven si illudono più di tanto che questo possa succedere. Chi era appeso diventa padrone per coltivare altri appesi che diventeranno padroni a loro volta in un ciclo continuo. Sempre al grido di Tierra y Libertad. 

Giulia Pretta