Il cavaliere, la morte e il diavolo: "Il sospetto" di Friedrich Dürrenmatt

 

Il sospetto
di Friedrich Dürrenmatt
Feltrinelli, 2001

Titolo originale: Der Verdacht
Traduzione di Enrico Filippini 

pp. 125
Attualmente fuori-catalogo (purtroppo!)

L’inizio de Il sospetto, si pone in continuità con una precedente opera di Dürrenmatt, Il giudice e il suo boia (recensito qui). Ritroviamo infatti, inaspettatamente, il commissario Bärlach, fresco di operazione in un letto d’ospedale, consapevole che non gli resta ormai molto tempo. Forse anche per questo, diviso tra la noia del convalescente e il desiderio di un’ultima, grande impresa a cui affidare la sua memoria, decide di seguire una pista intravista per caso.
Ci troviamo nella Berna del 1948, la guerra è ancora una memoria dolorosa e recente, e Bärlach, sfogliando un numero di Life del ‘45, si imbatte nella foto di un chirurgo che, nel campo di concentramento di Stutthof, opera un paziente senza anestesia. Questo chirurgo, pur se col volto parzialmente coperto da una mascherina, assomiglia straordinariamente a un altro medico che, di recente, ha aperto a Zurigo una clinica per pazienti facoltosi, Fritz Emmenberger.
Anche se la razionalità parrebbe riportare a un equivoco, a una fatale concomitanza di coincidenze, il pensiero inquietante non abbandona il commissario: “un sospetto era una cosa spaventosa, era il demonio che lo suggeriva” (p. 9). Convinto di non aver più nulla da perdere, l’uomo coinvolge nelle sue ricerche persone fidate: l’amico e dottor Hungertobel, che ha conosciuto Emmenberger da giovane ed è stato toccato dalla sua somiglianza con il nazista Nehle; l’ebreo Gulliver, che ha incontrato la bestia a Stutthof ed è l’unico ad essere sopravvissuto a una delle sue operazioni; infine l’ormai spiantato giornalista Fortschig, chiamato a realizzare il servizio della sua vita.
Anche se l’impostazione pare essere quella del giallo tradizionale, Dürrenmatt ci ha abituati a diffidare di tutto ciò che sembra ordinario, così come delle strutture eccessivamente razionali, che finiscono per scontrarsi inevitabilmente con le pieghe del reale. Un indizio di questo scollamento viene fornito da Bärlach stesso, che si propone come erede ormai disilluso dell’idealista don Chisciotte:
Tutti dobbiamo essere dei Don Chisciotte, se appena abbiamo un briciolo di cuore e un po’ di cervello nella zucca. Ma non dobbiamo combattere contro i mulini a vento come quel povero diavolo […], oggi si tratta di combattere contro mostri giganteschi, ora contro mostri di brutalità e di scaltrezza, ora contro veri e propri vampiri […]: belve che non stanno soltanto nei libri di favole. […] È questo il nostro compito, quello di combattere la disumanità sotto tutte le forme e in tutte le circostanze. (p. 55)
E mentre il tema etico si fa sempre più pressante all’interno dell’indagine configurandosi come un imperativo assoluto che porta il protagonista a perdere di vista il quadro generale in funzione della sua propria ossessione, si inizia a definire meglio anche l’identità del mostro: “Tutti gli uomini sono uguali. Nehle era un uomo. Dunque Nehle era come tutti gli uomini” (p. 30), ma se Nehle viene a più riprese definito una belva, questo ci dice molto della volontà di denuncia di Dürrenmatt, non solo della barbarie della Shoah, ma della responsabilità di tutti in questa barbarie. La domanda che sorge dalla narrazione è dunque fondamentale quanto impegnativa: basta una forte moralità per affrontare e vincere il male assoluto? La risposta, che il lettore vorrebbe immediata e sicura, in realtà non lo è. Non è un caso che la stampa che Bärlach vuole nella sua stanza, una volta fattosi trasferire alla clinica di Emmenberger, sia “Il cavaliere, la morte e il diavolo”. Proprio questi tre elementi si fronteggiano infatti in un duello all’ultima parola, una partita di scacchi in cui viene pesata la vera fede: il commissario mosso dal suo ideale, scoperto però fragile, caduco; il male incarnato nel chirurgo che sevizia le sue vittime per fare della sua vita un trionfo dell’istintuale, della libertà senza vincoli; e la morte, che aleggia spettrale sullo sfondo, minaccia incombente su uno dei due contendenti. Eppure, dal confronto, non è il cavaliere a uscire vincitore. Di fronte alla follia razionale di Emmenberger, nessun idealismo, nessuno slancio regge, se non il silenzio. Bärlach non riesce a opporre un credo altrettanto forte a quello materialista (non nichilista, come potrebbe sembrare) dell’altro. La giustizia arriva da fuori, e non è quella evangelica, ma quella veterotestamentaria del sangue che chiama il sangue, incarnata dal gigantesco ebreo errante, Gulliver. E il finale ancora una volta è un mancato finale, un finale aperto che permette al lettore, come tutte le opere migliori di Dürrenmatt, di gettare uno sguardo sull’abisso della coscienza umana.
 

Carolina Pernigo