Non c'è società ideale per lo scrittore: ieri si pubblicavano solo gli amici di amici, oggi si pubblicano solo i belli. "Il ministero della bellezza" di Marco Lazzarotto

Marco Lazzarotto Ministero della bellezza

Il ministero della Bellezza
di Marco Lazzarotto
Las Vegas edizioni, settembre 2021

pp. 239
€ 15,00 (cartaceo)
€ 5,99 (ebook)

 
Matteo Labrozzo è uno scrittore con un certo talento. O meglio, qualcuno l'ha definito così anni prima in occasione dell'uscita del suo primo e unico romanzo. Da allora si è dedicato a correzione di bozze, editing e a qualche svogliato tentativo di terminare il suo secondo lavoro, ma si sa come vanno le cose, no? La convivenza, la necessità di arrivare a fine mese e il terrore di affrontare la seconda opera lo hanno tenuto fermo. Il fatto è che l'Italia intorno a lui sta cambiando. Un parrucchiere cieco e geniale, Dominic Ardemagni, è stato eletto con la carica appositamente creata di ministro della Bellezza e sta rivoluzionando la penisola organizzandola in una callistocrazia: il potere dato ai belli. All'inizio cose da poco: aree interdette se non si è abbastanza attraenti, diritto di precedenza se si ha la macchina più bella, specchi a ogni angolo. I passi successivi e progressivi non sembrano così strani: carriera garantita se si hanno i capelli biondi e a boccoli, riproduzione consentita su base eugenetica, ritrovi clandestini dei meno attraenti che cercano sfogo e riconoscimento.
E l'editoria in tutto questo bailamme? Mentre Lisa, la sua compagna, forte della sua bellezza fa una carriera rapidissima, gli autori seducenti che ammiccano dalle copertine sbarrano la strada a Matteo che, a parte le mani molto belle, ha un accenno di stempiatura e le maniglie dell'amore. Se un tempo si pubblicavano solo gli amici di amici, quelli immanicati, oggi si pubblicano solo i belli. Pare non esserci una via d'uscita per gli autori minori: sia con che senza distopia di mezzo.
"Callistocrazia", ecco come la chiamarono, dal greco kallistos, “più bello”, e kratia, “potere”. Potere dei più belli. Lì per lì non ci feci caso, ma l’uso di -crazia avrebbe dovuto allarmarmi, allarmarci tutti: è vero che i giornalisti si divertivano sempre a dare un nome a certi eventi – “Tangentopoli”, “Calciopoli”, “Vallettopoli” –, ma c’era quel -poli, “città”, che li circoscriveva, li riduceva a stagioni. In questo caso, dimostravano di aver capito che la Callistocrazia non sarebbe stata una stagione. Ci stavano avvisando. (p. 18)
Il ministero della Bellezza di Marco Lazzarotto, da poco pubblicato da Las Vegas edizioni, è una riedizione aggiornata del 2013. Che l'essere belli dia ingiusti vantaggi, che l'apparenza conti più della sostanza sono considerazioni lamentevoli sempre attuali e danno una solida base all'avvio del romanzo: la bellezza come discrimine, anche se non sempre accompagnata dalla competenza.
«Hm. Posso dirle una cosa? A cosa serve un Help desk se poi non è in grado di rispondere alle mie domande?»
«Guardi che io sono in grado di fare mio lavoro: io sono bellissima.»
«Non volevo dire questo. Capisco che lei sia bellissima, ma non mi è stata di grande aiuto. (p. 138)
La callistocrazia costruita da Lazzarotto è di sicuro un punto di vista intrigante. Le ztl della bellezza, il cielo che si uniforma in un fotogenico pantone blu, la possibilità di possedere mobili di pregio solo se si è belli, le ispezioni per garantire gli standard costituiscono uno sfondo dove la parola "bello", di per sé molto vaga, assume un significato minaccioso. Ci sono trovate molto argute come gli uglyturismi, centri per brutti da recuperare, o le gerontoteche per tenere gli anziani tirati a lucido con una spruzzata di turchino nei capelli. Si prendono alcuni elementi delle distopie classiche e si ribaltano. Nei romanzi appartenenti al genere, di solito il problema della società è la bassa natalità come avviene nei Figli degli uomini o nei Racconti dell'ancella. Qui invece è il contrario: si è già in troppi e non si può correre il rischio di generare figli brutti e quindi ci si affida alla solida vecchia eugenetica. Non è un mondo mostrato nella sua interezza, non è del tutto chiaro perché la popolazione dovrebbe accettare questo tipo di governo, non c'è una contingenza che necessiti questo bisogno di perfezione. Se quindi il mondo ha un interessante punto di partenza, ma non si arriva mai a definire con precisione i confini di questa forma di governo – forse anche perché siamo nel punto di vista di Matteo "limitato" dal suo non essere attraente – è nell'attività editoriale che il romanzo arriva al suo culmine di ironia.
Con e senza distopia – termine che usiamo per comodità visto che l'ambientazione è quasi atemporale – gli scrittori che non sono già parte del circuito major sembrano avere davvero poche possibilità. 
«Glielo dico subito, la libreria è molto piccola, non ho spazio nemmeno per i grandi editori, figurarsi poi per le case editrici a pagamento.»
«No, guardi: non mi sono rivolto a un editore a pagamento, l’ho stampato con i miei risparmi e me lo sto promuovendo da solo. È diverso.»
«Scusi, eh, ma a me sembra la stessa cosa.»
«Mi sono pubblicato a mie spese perché gli editori non mi reputano abbastanza bello, capisce?»
«Hm.» (p. 100)
Se senza distopia non si viene pubblicati perché è tutto un "magna magna", con la distopia si viene esclusi perché non si è abbastanza belli. Se senza distopia i premi letterari – che nel Ministero della Bellezza prendono il nome da dei biscotti e non da un liquore – li vincono sempre le stesse case editrici che dominano il mercato, con la distopia non serve più nemmeno un'opera: si vince sulla fiducia e sulla bellezza. Se senza distopia il lavoro di editor e correttore di bozze è in un limbo professionale, con la distopia bisogna mettersi giacca e cravatta anche per revisionare le bozze sul proprio divano. Se senza distopia le case editrici major vengono a volte demonizzate in favore di letteratura più impegnata, nella distopia diventa una realtà dove gli autori vengono costretti a correre sui tapis roulant per dimagrire ed essere belli per le presentazioni e assume quasi connotati diabolici e sovrannaturali nella figura di Magnifica De Vincentiis, direttore editoriale dal nome parlante.
La questione è quanto uno scrittore è disposto a fare per la propria arte e quanta innocenza vuole conservare nel suo essere artista nudo e puro. Matteo passa i vari step: dall'autopubblicarsi quando le case editrici lo rifiutano perché la sua foto in quarta di copertina non starebbe bene, dal cercarsi un avatar – un uomo bello che possa fare le sue veci ai festival e alle presentazioni – fino a modificare continuamente la trama del suo romanzo in base al sentire del pubblico e ai desideri del suo avatar che prende sempre più coscienza di sé e del proprio potere in quanto "bello". 
Conosciuti o sconosciuti, belli o brutti, social o no, essere scrittori è una gran fatica in ogni tempo e spazio. Senza distopia, l'arrivo alla pubblicazione e a una certa fama è fonte di soddisfazioni, il coronamento di un estenuante percorso. Con la distopia, nemmeno la pubblicazione riesce ad alleviare l'animo dell'artista.

Giulia Pretta