Di una lettura che spezza, di un gigante della letteratura contemporanea: Percival Everett e il nuovo imprevedibile romanzo, in tre differenti versioni


Telefono
di Percival Everett
La Nave di Teseo, 2021

Traduzione di Andrea Silvestri

pp. 288
€ 22 (cartaceo)
€ 9,99 (Ebook)


Oh Everett che cosa hai fatto con questo libro, come ci hai spezzati. Eppure ogni lettore di Percival Everett lo sa, ogni suo libro è un piccolo miracolo di perfezione letteraria, stratificato e innovativo, capace di indagare le pieghe segrete del cuore umano, metterci davanti ai nostri demoni, alle nostre mancanze, farci sentire scomodi. Questa volta però ci spezza del tutto, con una storia intensa, straziante a tratti, che si ramifica in innumerevoli altre storie e spunti di riflessione, capaci di scorticare il lettore. Everett, che con Telefono – da poco in libreria per La Nave di Teseo nella traduzione di Andrea Silvestri – era arrivato finalista al Pulitzer di quest’anno e che si conferma uno degli autori contemporanei più interessanti, mai uguale a sé stesso, eppure forse non ancora abbastanza letto fuori dal mondo anglosassone. 

Ecco, Everett riesce ancora una volta a compiere il suo personale miracolo letterario, con un romanzo pensato in tre differenti versioni che si distinguono per certi particolari, alcuni minimi altri invece fondamentali. Un gioco, certo, ma a mio avviso anche l’occasione per tornare alla parte più interessante della lettura: la condivisione, il confronto con gli altri lettori. Leggo Everett dalle prime pubblicazioni italiane per Nutrimenti edizioni e di recente ho avuto il piacere di ritrovare Quanto blu – il suo penultimo romanzo – come titolo scelto qualche mese fa dal mio gruppo di lettura: avevo già letto e apprezzato quell’opera, ma sapevo che nel confronto con altri lettori avrebbe rivelato quanto in una lettura solitaria seppur densa e consapevole era rimasto indagato, in qualche modo sospeso; i miei dubbi, le mie considerazioni su nodi cruciali del romanzo hanno trovato eco e nuovi stimoli nel dialogo con gli altri lettori, amplificando la portata di quella storia. Ci ho ripensato molto nel corso della lettura di Telefono e, neanche a dirlo, ho subito cercato il confronto con alcuni di loro e spero di proseguire più approfonditamente il discorso: non soltanto per sviscerare tutte le differenze tra una versione e l’altra che è senza dubbio un gioco interessante ma soprattutto per comprendere le implicazioni che ogni dettaglio difforme assume oltre la storia e, ancora, sentire quali risposte ognuno di noi ha dato alle innumerevoli domande con cui Everett ci costringe a confrontarci.

Molte le angolazioni da cui possiamo osservare questa storia che ne racchiude molteplici altre: è il racconto di un matrimonio e di un uomo che sta andando alla deriva, di una famiglia – di un padre – costretto a fare i conti con la malattia della figlia dodicenne e l’abisso che apre nelle loro vite; è la storia di una richiesta d’aiuto che viene ascoltata, forse per le ragioni “sbagliate”, ma comunque accolta
Mentre scrivo queste righe, non so se vivrò ancora per molto, e voi non sapete di cosa sto parlando. Mi sono ritrovato in questa situazione per via di un semplice biglietto, di segni su uno strano pezzo di carta, parole che avrebbero potuto non significare nulla, che avrei potuto lasciare del tutto prive di significato. Ma non è davvero possibile, giusto? (p. 15)
Di donne uccise, rapite, private della propria voce e dei propri diritti, in un mondo violento che è più vicino di quanto si vorrebbe ammettere. È da lì, da Ciudad Juárez, in Messico, città maledetta dove centinaia di donne sono diventate vittime della violenza maschile, perdono la vita, scompaiono nel nulla lasciandosi dietro un nome, un padre, una madre, una sorella, una figlia, che non troveranno pace né giustizia.
Qualcuno diceva che nell’arco di una ventina d’anni erano morte o scomparse trecento giovani donne. Altri dicevano che erano quasi settecento. […] Nessuno sapeva chi avesse ucciso o rapito queste persone. Forse i cartelli della droga, diceva qualcuno. Magari bande erranti di predatori sessuali. Adoratori del diavolo. Magari invasori dallo spazio. Uomini. Erano uomini. Erano sempre uomini. Sempre uomini. (p. 16)
Quando la vita di Zach Wells, palentologo e voce narrante della storia, va in pezzi, decide contro ogni logica di rispondere a quella richiesta d’aiuto: “Ayùdame”, c’è scritto su un biglietto inserito nella tasca di una giacca usata comprata online, “aiutami”, un appello disperato che non può essere ignorato, perché già il resto del mondo si è impegnato a girare la testa dall'altra parte. È il bisogno di salvare qualcuno, di fronte all'impossibilità di salvare sua figlia. Tutto intorno a lui va alla deriva, il suo matrimonio – logorato dal tempo, dall’amore che si è sfilacciato, tenuto insieme solo dall’affetto per la figlia – , i suoi rapporti personali e professionali non più protetti da una solida linea di confine, il cuore stesso spezzato dalla condanna a morte che rappresenta la malattia della figlia dodicenne Sarah, senza appello, senza speranza. 
Ed è, ancora, la storia di uomini e donne che accarezzano l’idea della morte, di fantasmi con cui fare i conti, di pesi che inchiodano a terra, di uno spaccato del mondo accademico e delle sue complessità e contraddizioni. 
Ma anche di riscatto in un certo senso, di salvezza laddove non sembra neppure possibile immaginarne una. 
La questione razziale ancora una volta un episodio narrativamente marginale eppure enorme per la sua portata politica e sociale, una bomba sganciata nel pieno stile Everett con cui siamo chiamati a confrontarci, improvvisamente scomodi nei nostri panni.

Ma è, essenzialmente, il canto disperato di un padre che assiste impotente alla scomparsa della figlia, un pezzo alla volta ogni giorno e il confronto con ciò che ha significato la paternità, con la pena straziante di quello che si trasformerà in ricordo:
Lì su quel sentiero, dietro di lei, al centro dei miei pensieri non c’era il desiderio di essere un buon padre, di essere un padre amorevole, solo di poter continuare a essere un padre. (p. 132)
Una semplicità straziante che Everett riesce nel miracolo di raccontare senza mai cadere nel pietismo, affondando nelle varie sfumature e interpretazioni del dolore, lo sguardo privo di giudizio. E incastrando a queste storia che rischiava di fagocitare tutto il resto molteplici altre storie, tutte importanti nella loro complessità e urgenza. Ne emerge il ritratto di un uomo con le proprie mancanze, i dubbi, le colpe, le contraddizioni. Reale, proprio per questo.
Un talento straordinario, una prova ancora una volta di grande letteratura.