La povertà, la rabbia, la scrittura: "Trash", quindici racconti brutali di Dorothy Allison


Trash
di Dorothy Allison
Minimum Fax, 2021

Traduzione di Margherita Giacobino

pp. 273
€ 16 (cartaceo)
€ 8,90 (ebook)


«Letteratura delle macerie»: così Rossella Milone, in un articolo pubblicato su L’Espresso, definisce a un certo punto Trash, la raccolta di racconti con cui nel 1998 esordì Dorothy Allison e che ora è arrivata in libreria per Minimum Fax, tradotta da Margherita Giacobino. Macerie di un passato di abusi, povertà, sofferenza, rabbia con cui confrontarsi e, di quelle macerie appunto, farne letteratura. Considerata l’erede della grande tradizione letteraria del Sud, che affonda le radici nell’opera di Faulkner, Flannery O’Connor, Tennessee Williams solo per citarne alcuni, Dorothy Allison ha aperto uno squarcio, raccontando una realtà mai edulcorata o edificante, a partire dalla propria esperienza personale. Le sue storie, come i romanzi e ogni altro scritto, nascono sempre da qui e rifuggono rigide etichettature di genere, in bilico tra memoir ed elaborazione letteraria. 
Questi quindici racconti, per la prima volta tradotti in italiano a distanza di più di vent’anni, conservano intatta buona parte della loro forza, di una rabbia che si canalizza nella scrittura e che diviene il mezzo per fare i conti con il proprio passato ma anche e soprattutto per tentare di colmare un vuoto: raccontare i “white trash”, i “bianchi spazzatura”, i bianchi poveri: 
Scrivevo per me stessa, cercavo di dare una forma alla mia vita al di fuori dei miei terrori e della mia impotenza, di renderla visibile e reale, tangibile, allo stesso modo in cui le vite degli altri sembravano reali: le vite che leggevo nei libri. Da bambina avevo creduto nei libri, ma sulla carta stampata non avevo mai trovato né me né i miei. Gente come i miei familiari veniva sempre trasformata in caricature o in piatte figure di maniera, come santini. (dalla prefazione alla prima edizione, p. 23)
Gli uomini e le donne di Allison sono invece reali, come le cicatrici che si portano addosso. Non è affatto facile addentrarsi in queste storie, crude, spietate, che scavano nella rabbia e nella violenza e le riportano sulla pagina per mezzo di una lingua altrettanto crudele resa magnificamente dall’attento lavoro di Giacobino. Ma era la sola lingua possibile per evocare i fantasmi, raccontare il dolore degli abusi, della perdita, del fallimento, della vergogna. 

Della rabbia, appunto, che attraverso la scrittura si trasforma in vita, ricordo, salvezza:
Scrivere queste storie è il solo modo che conosco per accertarmi che ancora una volta ho deciso di vivere, per opporre, momento per momento, un piccolo grumo di testardaggine a un oceano di ignoranza e oblio. (dalla prefazione alla prima edizione, p. 27)
Il discorso sulla scrittura è il fil rouge che percorre ogni storia, la possibilità di salvezza rappresentata per Allison che grazie ad essa ha trovato la propria dimensione lontano da lì, dal luogo dove è cresciuta, dalla brutalità, dalla fame. Eccolo, l’ultimo tabù, la povertà: inaccettabile in un certo contesto geografico, appartenente a una data etnia, nascondiamo la polvere sotto il tappeto per non doverci fare i conti. Eppure è proprio lì, davanti ai nostri occhi, e molta letteratura degli ultimi anni, come per esempio Nomadland, ce lo sta dicendo a gran voce. 
Pagine intrise di dolore e di rabbia, si diceva, di fantasmi: le persone perdute, le morti violente, gli abusi, la rassegnazione. E tutte le sfumature della sofferenza di chi in qualche modo è sopravvissuto:
I sopravvissuti si odiano, lo so, al di sopra del nucleo di feroce amore per se stessi, continuano a non capire, a chiedersi: «Perché io e non lei, non lui?». C’è un tale mistero in questo, e io ho odiato me stessa almeno quanto ho amato gli altri, ho odiato il puro e semplice fatto della mia sopravvivenza. Essendo sopravvissuta, ora devo dire qualcosa, fare qualcosa, essere qualcosa? (“Fiume di nomi”, p. 36)
Ma, soprattutto, il confronto con chi doveva proteggerci e non l’ha fatto:
«Lo sai cosa vuol dire quando le persone che ami di più al mondo, le persone in cui credi, perché non sopravviveresti se non credessi in loro, quando queste persone non fanno niente, non pensano neanche che bisogna fare qualcosa? Quando non puoi odiarle, e nello stesso tempo non riesci a farne a meno?» (“Non dirmi che non sai”, p. 142)
E allora l’unica forma di salvezza possibile è prendere le distanze, lasciando che il tempo e la scrittura diventino il mezzo per comprendere se non perdonare quelle donne, amatissime, che non sono state capaci di salvarci. A partire dalla madre di Allison, adorata, nonostante le mancanze, a cui ogni pagina scritta in fondo è dedicata. 
Il discorso sulla maternità è ancora una volta complicato, protagonista in qualche modo di ogni racconto, esplorato da punti di vista differenti: la matriarca tiranna, la madre che accoglie figli non suoi, la maternità negata, il ruolo di figlia. Le donne di Trash sono fatte di carne e sangue, come di carne e sangue sembra farsi la scrittura, che scortica e non concede sconti. È orribile guardare così da vicino il dolore e la violenza, ma non esisteva altra forma narrativa possibile per raccontare, e se talvolta è necessario prendere una pausa e riemergere dal mondo di Allison è anche un viaggio necessario dentro la rabbia e la salvezza. È il diritto di raccontare, di dare finalmente voce e dignità a coloro che ne erano privi. Con le sole parole possibili.