"Nessuno è colpevole". La nuova indagine di Arthur Jelling: la classe indiscussa di Giorgio Scerbanenco.

Scerbanenco, copertina di "Nessuno è colpevole"




Nessuno è colpevole
di Giorgio Scerbanenco
La Nave di Teseo, luglio 2021

pp. 224
€ 17,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)



 

Arthur Jelling era un individuo essenzialmente razionale. Per quanto strane potessero apparirgli certe sue deduzioni, se queste erano congruenti, sillogistiche, le accettava con fede. Per fare un esempio grossolano, per lui, due più due faceva sempre quattro, anche se la realtà gli avesse messo innanzi agli occhi la somma di cinque. In un certo senso egli trascurava completamente la realtà, per credere soltanto alla logica. Un teorico, si penserà. Forse. Qualche volta il suo rigorismo logico lo induceva in errore. Qualche volta no. (p. 67)

Iper-logico, intuitivo, timido, silenzioso e umano, torna Arthur Jelling, nel terzo romanzo che Scerbanenco scrisse con questo stralunato e geniale protagonista, nel 1941. La Nave di Teseo prosegue con la lodevole iniziativa editoriale di ripubblicare l'opera dell'indiscusso padre dei giallisti italiani, presentandoci Nessuno è colpevole, un giallo che ho divorato in un solo giorno, assaporando le tecniche 'classiche' del giallo (dialoghi serrati, indagini parallele e apparentemente incomprensibili del detective rispetto l'indagine ufficiale, colpo di scena finale) ma, soprattutto, la messa in scena lucida e vibrante della commedia umana. Questo romanzo di Scerbanenco ci offre uno spaccato - l'aggettivo che mi viene in mente è simenoniano  - della società bostoniana, ma potrebbe benissimo essere quella italiana. La ragazza bruttina fidanzata ad un ragazzo che non la apprezza, il ragazzo avido interessato solo all'ascesa sociale, l'innamorato deluso scambiato da tutti per un idiota, il funzionario Chareday ottuso nella sua vita da burocrate. La galleria di personaggi, la loro interazione con Jelling, è l'aspetto più pregevole del romanzo, senza nulla togliere alla trama, che vengo adesso a riassumere, senza svelare.

Il caso con cui deve confrontarsi l'archivista della polizia di Boston, Arthur Jelling, è apparentemente molto semplice, anzi: già risolto. Si ha un reo confesso, William Funt, che uccide durante una partita di caccia il suo amico Ted Farr. Inizialmente prova a far passare questo omicidio come un incidente, ma ben presto se ne assume la piena responsabilità, dichiarando che non ha mai perdonato all'amico di avere sposato la donna di cui lui era innamorato, solo per dispetto, di averla fatta soffrire e poi morire. Un rancore mai sopito ed un omicidio premeditato, dunque. Il capitano Sunder, così come Chareday, incaricato a preparare l'istruttoria, giudicano il caso chiuso e la pubblica accusa è pronta a chiedere la pena capitale per Flunt. Ma l'intuito di Jelling non si placa. Qualcosa stona in questa ricostruzione così perfetta e lineare. Partendo dall'assunto che «per conoscere l'assassino, prima bisogna conoscere l'assassinato», le indagini di Jelling paiono apparentemente divagare nella conoscenza delle persone vicine alla vittima: la seconda moglie (splendido ritratto psicologico di Betty Graves) e dell'amico James Kàlman. Attraverso dialoghi serrati, Jelling fiuta la sua pista, che lo porterà a ripercorrere il viaggio di Flunt e Farr, ai confini del Canada, a scendere nella scarpata dove è caduta la vittima, di cui non si è mai trovato il cadavere ma solo effetti personali.

Si contrappongono due metodi investigativi: quello ottuso e iper-logico di Andrew Charedey e quello di Jelling.

Andrew Chareday era un uomo che sembrava edito dal ministero di grazia e giustizia, piuttosto che nato da una donna. Fuori del suo lavoro procedurale era un sovrumano imbecille, un uomo che non capiva assolutamente nulla, e per questo Jelling non riusciva a mantenere una vera cordialità con lui, amante com'era della gente comprensiva e intelligente». (pp. 76/77).

L'istruttoria di Charedey è consequenziale, apparentemente inoppugnabile, ma la differenza tra il burocrate e l'investigatore geniale è proprio questa

Tutto questo era più che plausibile, Nè Jelling pensava di metterlo in dubbio. Ma avrebbe voluto spiegare a Chareday la psicologia di Virginia Flunt, quella del degno Suwell, quella di Betty Graves e di Frank Wipers. L'istruttoria compilata da Chareday rassomigliava a un quadro di Raffaello visto da un uomo che non percepisce i colori, ma solo i bianchi e i neri. Mancava ad essa, appunto, il colore, la vita. Quella vita che le sarebbe stata data dalla psicologia dei personaggi del dramma» (pp. 81/82).

Nel libro di Scerbanenco vi è proprio la "vita", i colori delle passioni umane, delle meschinità e dei valori dei personaggi, narrate con serena partecipazione e senza mai salire su alcun pulpito. Anche le belle pagine che narrano il processo, vibrano di questa filantropica accettazione delle mancanze della natura umana, senza mai perdere di vista però la perfettibilità e il miglioramento (anche il ravvedimento) dei "cattivi". Perché "cattivi" in fondo non ce n'è. Nessuno è colpevole vuol dire che siamo tutti colpevoli,  per le grette gelosie e invidie, per il desiderio di denaro e di riscatto sociale, per il tradimento all'amicizia e per le bugie. 

La scrittura di Scerbanenco è asciutta e priva di fronzoli come si addice ad un giallo, senza inutili lirismi. Eppure proprio questa apparente asetticità riesce a fare risaltare l'umanità dei personaggi. Geniale come Poirot, umano come Maigret, Arthur Jelling merita senza dubbio di essere riscoperto e di sedersi al tavolo dei grandi investigatori.

Deborah Donato