"Un piede in paradiso": la terra, l'acqua, la colpa, nel romanzo perfetto di Ron Rash



Un piede in paradiso 
di Ron Rash
La Nuova Frontiera, 2021

Traduzione di Tommaso Pincio

pp. 256
€ 16,90 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)





Il nome di Ron Rash dovrebbe figurare accanto a quello dei giganti della letteratura statunitense che lo hanno preceduto e formato, come lettore e come scrittore. In buona parte è così, il pubblico e la critica nord americana sono ben consci del valore letterario di un autore capace di trascendere forme e generi, passando abilmente dal romanzo al racconto fino alla poesia, con una voce chiara, limpida, brutale a tratti, in cui risuona fortissimo l’eco della tradizione in cui affonda saldamente le radici. Curioso che un autore del suo calibro non fosse mai stato seriamente considerato nel nostro Paese, pur molto attento a recepire tendenze e autori dal Nord America. Salvo una fugace parentesi di diversi anni fa, la scoperta di Ron Rash e l’attenzione tanto di pubblico quanto di critica, è cosa recente, grazie alla traduzione di Un piede in paradiso a cura di Tommaso Pincio per La Nuova Frontiera. 

L’arrivo di Rash in traduzione italiana è impossibile da ignorare: bastano una manciata di pagine per rendersi conto della forza brutale della narrazione, del dialogo con la letteratura del Sud da Faulkner a Welty e O’Connor, Richard Ford, Harper Lee, della straordinaria capacità di ricreare la vita sulla pagina, di trascendere il tempo e lo spazio. Un romanzo che è già un classico, stratificato, denso di spunti di riflessione, che poggia saldamente su una narrazione dura e commovente insieme. C’è dentro buona parte di quello che abbiamo letto e amato, da americanisti, l'influenza della letteratura che l’ha preceduto, un certo distacco temporale, ma allo stesso tempo è qualcosa di nuovo e originale. La traduzione di Pincio si confronta con la polifonia del testo, riuscendo a rendere egregiamente voci e sguardi differenti con cui l’autore costruisce la storia: e sono proprio queste voci, o quattro di loro almeno, a dare anima al romanzo ben oltre i semplici fatti narrati.
È una torrida estate degli anni Cinquanta, il luogo dove tutto accade è Oconee – che, ho verificato per curiosità, esiste sul serio – una piccola contea agricola nei pressi degli Appalachi: un uomo, la testa calda del posto, scompare, la madre allerta lo sceriffo convinta sia stato assassinato per via di una relazione con la donna – sposata – della fattoria confinante; le ricerche del corpo, senza il quale è impossibile montare un caso di omicidio; intanto, sullo sfondo ma via via più vicino, il fermento per la costruzione imminente di una diga ad opera di una grande compagnia elettrica, che spazzerà via per sempre la comunità, come se non fosse mai esistita.

Bastano un paio di pagine per farsi un’idea di quel che è accaduto, dove sta la colpa, ma non è questo che importa e in tutto il resto, appunto, la magnificenza del romanzo: attraverso le voci e il punto di vista dei cinque personaggi più o meno direttamente coinvolti nella vicenda, Rash dà forma a un mondo, una comunità, ai tormenti di uomini e donne che lottano ogni giorno per strappare alla terra quel tanto di sostentamento per la famiglia, generazione dopo generazione; ai segreti che custodiamo a caro prezzo e alle maschere che indossiamo; alle colpe e alle conseguenze del perdono; a una comunità consapevole che di lì a poco verrà cancellata, sommersa dall’acqua come se non fosse mai esistita. È una storia di umiltà e lavoro, di padri e figli incapaci di comprendersi, di parole mancate. Di ciò che chiamiamo casa.

Il rapporto con la terra, posseduta o soltanto lavorata, è naturalmente centrale e si apre a molteplici spunti. È un rapporto viscerale, che segna una vita di incertezze e lavoro durissimo, di sacrifici, ma che significa anche attaccamento profondo, uno sguardo alle generazioni che verranno a proseguire il proprio lavoro, o almeno è quello che si vorrebbe.
Era anche attaccato a quella terra, la terra che la sua famiglia possedeva da centottanta anni. Ci era attaccato non soltanto per coloro che erano venuti prima di lui ma per i figli e i nipoti. Sapevo che la sua più grande soddisfazione era di poter guardare i campi e vedere il figlio e i nipoti lavorare i campi che lui aveva lavorato pere tutta la vita. (p. 55)
Eppure sappiamo già che non potrà essere così, la distruzione a opera della Carolina Power è un fatto certo e presto o tardi la terra dovrà essere venduta, abbandonata. Qualcuno già ora all’incertezza della vita agricola ha preferito un’altra strada, «lo stipendio sicuro», come sceriffo della contea: Will Alexander, la prima voce narrante di questa storia guida le indagini in seguito alla scomparsa di Holland Winchester e lentamente conduce il lettore dentro la comunità e la propria vita. Si svela sulla pagina il tormento intimo di un uomo che dalla terra – e, di conseguenza, dalla famiglia – ha preso le distanze, di una perdita che ha gettato un’ombra sulla propria vita e sul matrimonio, di desideri mancati e cadute. La grandezza di Rash – e anche per questo va il plauso alla traduzione di Pincio – è saper costruire con una naturalezza sorprendente una voce e uno sguardo peculiari per ogni narratore; ecco, quindi, come il tormento e il particolare rapporto con i luoghi si traducano per Alexander in una narrazione tesa fra lirismo e durezza, lo sguardo già velato di malinconia per la consapevolezza di quanto è stato perduto e quanto di lì a poco lo sarà definitivamente.
Quando ho raggiunto la strada asfaltata, il crepuscolo aveva ormai assunto lo strano colore che ha sempre in agosto, un rosa screziato di verde e argento. Da sempre quel colore mi dava l’impressione che il tempo avesse trovato una maniera di filtrare dal mondo, in una fusione di passato e presente. (p. 31)
Il confine tra passato e presente pare talvolta farsi labile: le mani affondate nella terra che era dei padri, i volti dei bambini su cui riconoscere i tratti delle rispettive famiglie, le tradizioni e le superstizioni che via via si tramandano. Di Alexander, della sua indagine, seguiamo i pensieri e le riflessioni più delle parole, che sono sempre scarne, misurate, nel romanzo tutto. I dialoghi sono brevi, mentre a caricarsi di significato sono i gesti, le espressioni, i silenzi stessi.

Di poche parole, chino su quella terra conquistata con fatica, è anche Billy Holcombe, l’uomo sospettato di aver ucciso Holland. Laddove a Billy sembrano mancare le parole e i dialoghi si fanno scarni ma carichi di peso, seguirne le riflessioni apre lo sguardo su quel mondo che Alexander sembra aver invece rifiutato, almeno fino a un certo punto. Ed è dalla voce di Billy, o meglio, dai suoi pensieri, che nascono le immagini più struggenti del romanzo, la profonda malinconia che lo attraversa, la riflessione sulla caducità delle cose, la fatica, il dolore, la perdita. 
Lo sguardo di Billy costringe il lettore a confrontarsi con l’orgoglio e la colpa, la disperata tenacia, l’umanità dell’uomo e le sfumature dell’amore, in una rappresentazione che non fa sconti, concreta e reale come la terra. 

Che cosa comporti esserne la moglie, gravata dall’incertezza della loro vita e dalla mancanza di un figlio, lo leggiamo nel cuore di Amy, nei segreti e nelle colpe che custodisce dall’infanzia, nelle scelte che condizioneranno molte vite. Solo da lei stessa possiamo comprenderlo, perché «nel cuore di una donna scorrono fiumi troppo profondi per un uomo» e neppure il marito è in grado di avventurarsi in quelle acque profonde. Il mondo interiore di Amy è molto più ricco di quanto rivelano le poche parole che pronuncia, ognuna di queste scelta con cura, pesante come un macigno. Sembra fatta di acqua e sole, la bellezza celata e che è consapevole scomparirà presto, perché la moglie di un contadino invecchia precocemente, lo ha imparato da sua madre. Ma è un’altra donna che Amy si rivolge in cerca di aiuto, una richiesta disperata che poteva essere accolta solo dalla “strega” del paese, la Vedova che vive sola nel bosco, la levatrice di cui quasi tutti hanno timore. 
Circolano molte voci su quella donna che vive isolata dal mondo, quasi nessuno si addentra là dove il fiume si biforca e c’è la sua capanna. Ma non c’è altra scelta per Amy che rivolgersi a lei. E farle pronunciare a lei le parole, rendere reale un pensiero che forse era già proprio di Amy. 

Gli ultimi due capitoli del romanzo, le ultime due voci narranti, rappresentano ciò che verrà, le conseguenze dei fatti messi in moto in quell’estate brutale, dove ogni cosa è in attesa di germogliare, della pioggia che riporti la vita. E sono uno sguardo su qualcosa che è ormai inevitabilmente perduto: l’innocenza, la casa e la vita fino a quel punto conosciute. Ogni cosa sarà presto sommersa dall’acqua, forse anche la colpa. 
Sono entrato nella casa in cui avevo vissuto per quasi diciotto anni. Ricordava una di quelle città fantasma che si vedono nei film western, con il vento che solleva polvere e spinge balle di erbacce per le strade vuote. Tutto ciò che poteva far pensare che qualcuno ci avesse davvero vissuto – sedie, letti, televisore, quadri alle pareti – era sparito. (p. 200)
L’acqua sempre più vicina, ogni cosa già perduta. Le pagine finali sono dense di malinconia e commozione, in ideale contrasto con il ritmo della narrazione che si va facendo più incalzante, teso, ricco di immagini indimenticabili. 
È davvero un romanzo straordinario, non ho timore di dirlo: la stratificazione e la densità di tematiche e spunti collocano di diritto Rash fra i giganti della narrativa statunitense. Di questi uomini e donne, dei loro tormenti e segreti, della terra e della vita che sfugge, di ciò che nonostante tutto chiamiamo casa, dei legami di sangue o dati dalle scelte, ecco, di tutto questo, il lettore porterà dentro a lungo il ricordo. 
Ma niente è solido e duraturo. Le nostre vite si reggono su fondamenta instabili. Non è necessario leggere i libri di storia per scoprirlo. Ti basta conoscere la storia della tua vita. (p. 74)

Di Debora Lambruschini