“Una strada senza nome” di James Baldwin: l’animo umano visto attraverso gli occhi di un eterno estraneo




Una strada senza nome 
di James Baldwin
Fandango, 2021 (prima ed. 1972)

Traduzione di Michele Zurlo

pp. 198 
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


James Baldwin. Saggistica e romanzi, scrittura e attivismo. Una vita dedicata alla letteratura, ma anche al teatro e al cinema. Una vita dedicata alla lotta per i diritti degli omosessuali, nonché alla lotta per i diritti degli afroamericani. Scrittore celebre e benestante, ma anche oggetto di doppia discriminazione. Da Harlem, a Parigi, al Sud segregato degli Stati Uniti. Se c’è una voce capace di restituirci nella sua complicata veridicità un periodo ricco di sfaccettature come gli anni della desegregazione razziale, è la voce di James Baldwin. Che in Una strada senza nome rinsalda la sua posizione trasversale, la riconosce e la rivendica, e calandosi pienamente in essa ripercorre con lo strumento della saggistica i suoi ricordi, dall’infanzia di Harlem alla fuga a Parigi fino al sofferto ma necessario ritorno negli Stati Uniti. In questo senso, non ci sorprende che la scrittura di quest’opera lo tenne impegnato dal 1967 al 1971; ogni ricordo narrato in quest’opera ci viene presentato come raffinato, appuntito, limato fino alla lucentezza più estrema, e accompagnato da riflessioni che uniscono non solo l’esperienza personale a quella universale, ma anche l’esperienza americana a quella europea, la segregazione razziale al colonialismo europeo dell’Africa, sotto il segno di quella tendenza a opprimere il prossimo che è tristemente connaturata all’essere umano.

È indubbio che, dietro l’operazione del ricordo portata avanti dallo scrittore, si celi una profonda sofferenza. Il dolore è visceralmente legato al ricordare, per Baldwin, ma è anche il motore immobile che innesca la scrittura. La mente e la penna procedono così a salti tra il passato e il presente: la casa d’infanzia di Harlem, con un padre biologico mai conosciuto, e un patrigno troppo severo, si mescola alla Harlem dove James ritorna da adulto e che non riconosce più come propria. È il dolore del non appartenere a nessun posto che trasuda dalle peregrinazioni di Baldwin tra vecchio e nuovo continente, tra la sua città natale e tra gli innumerevoli hotel dove trascorre la sua vita da giornalista. E quel sentimento di non appartenenza, il dolore della perdita di qualcosa che, in fondo, non si è mai posseduto, si sente forte e chiaro quando Baldwin sposta il cono di luce del ricordo sulle morti dei due più famosi leader del movimento antisegregazionista: Malcolm X e Martin Luther King. James Baldwin ricorda precisamente dove si trovava quando ricevette queste due terribili notizie, ancora una volta sottolineando come sia il dolore, più che la gioia, ad avere la capacità di imprimere a fuoco i ricordi e a renderli incancellabili.

Ricordare è soffrire, dunque. Ma perché allora Baldwin vuole eternare nella scrittura questi ricordi dolorosi? Lo scopo non è affatto alleviare le proprie sofferenze portando i propri ricordi fuori da sé, anzi: Baldwin sembra voler esprimere questa sofferenza il più possibile, tendendola al massimo. Solo così, offrendo la sua esperienza di marginalizzato e privilegiato a un tempo, potrà davvero spiegare cosa significa vivere in un mondo in cui la giustizia e il potere non coincidono. Il pregio delle pagine in cui Baldwin si abbandona a riflessioni è la sua capacità di astrarsi dalla contingenza del ricordo o del contesto di partenza per esaminare tendenze dell’animo umano, riuscendo così a risultare profondamente attuale ancora oggi. Tra la discriminazione degli algerini in Francia e la segregazione razziale negli Stati Uniti c'è infatti una comune epistemologia dell'oppressione, ed è proprio facendo tali collegamenti funambolici che Baldwin riesce a inquadrare comportamenti umani che sono assai più difficili da descrivere e condannare dei contesti politici di riferimento. La necessità maschile di affermare il proprio potere e la propria virilità, la facilità con cui la polizia abusa della propria posizione e si abbandona a dinamiche persecutorie, il modo in cui il germe del razzismo si insinua subdolamente anche nelle coscienze degli afroamericani: i numerosi viaggi compiuti dall’autore e la sua capacità di analisi gli permettono così non solo di regalarci un impagabile quadro dell’America e dell’Europa viste da fuori, da una soggettività sempre estranea, ma anche di saper riconoscere i segnali della violenza e dell’intolleranza che sono sopravvissuti alla desegregazione e al decolonialismo e che, sotto mentite spoglie, avvelenano anche il nostro tempo. Impossibile non chiedersi, leggendo questo libro, cosa penserebbe Baldwin dei movimenti per i diritti civili che infiammano la nostra generazione nonostante le resistenze dei potenti. Noi non possiamo saperlo, ma possiamo utilizzare la sua visione lucida per interpretare la nostra realtà come avrebbe fatto lui. O almeno provarci.

Marta Olivi