"Non per questa via passa la distinzione: solo per quella del mistero assoluto e della libertà assoluta": l'estrema forma della resistenza secondo Nina Berberova

Il giunco mormorante di Nina Berberova

Il giunco mormorante
di Nina Berberova
Adelphi, 2020

Traduzione di Donatella Sant’Elia

pp. 79  
€ 10,00 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)
 
 
Esiste un’armonia nell’universo. Nell’uomo tuttavia qualcosa si è infranto, lasciando spazio al disordine, all’incompletezza, al dolore della creatura abbandonata. Nella poesia di Fëdor Tjutčev posta in epigrafe a questo testo di Nina Berberova e chiave interpretativa dell’intero racconto, il giunco pensante che mormora, che leva il suo grido, si fa simbolo di questa dissonanza, di tutto ciò che è perduto, ma anche di un’estrema resistenza. E proprio all’insegna di una perdita – di una separazione tra amanti – si apre il breve romanzo, meno di cento pagine di straordinaria densità emotiva. Perché quello di Berberova è uno scritto in cui si articolano diversi elementi, diversi piani di lettura. È innanzitutto un racconto di luoghi, in cui quelli interiori trovano sempre contrappunto in quelli esteriori: la Parigi acquatica, verde scuro, dell’ultima notte prima della seconda Guerra Mondiale, la Stoccolma rutilante del dopoguerra, la Venezia dal ritmo lento e i merletti di pietra in cui è possibile provare una strana e inaspettata felicità. È anche però un racconto di sentimenti: di amore saldo e apparentemente incrollabile, di smarrimento e nostalgia, di ricerca ostinata, di rabbia e di riscatto, infine di scelta, di una presa di posizione forte sulla (e nella) propria esistenza. Sette anni trascorrono dalla sera oscura in cui si apre la narrazione ed Ejnar decide di allontanarsi dalla Francia alle soglie del conflitto per tornare nella sua nativa Svezia. Sette anni di cui viene fornita una sintesi lapidaria, un’ellissi interrotta soltanto da pochi scorci fulminei, malinconici, sulla vita della protagonista, sul progressivo svuotamento di senso che è costretta ad affrontare di fronte alla sistematica privazione di ciò che ama. C’è però qualcosa in lei che non si rassegna, uno spazio intimo e segreto in cui continuare a coltivare la speranza, la passione, il mistero di sé, la propria libertà. Una terra di nessuno che non può essere insidiata dalla guerra, dal disamore, neppure dai totalitarismi, che ne hanno anzi tanta paura da provare in ogni modo a sopprimerla o a negarla. 
Fin dai primi anni della mia giovinezza pensavo che ognuno di noi ha la propria no man’s land, in cui è totale padrone di se stesso. C’è una vita a tutti visibile, e ce n’è un’altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa nulla. Ciò non significa affatto che, dal punto di vista dell’etica, una sia morale e l’altra immorale, o, dal punto di vista della polizia, l’una lecita e l’altra illecita. Semplicemente, l’uomo di tanto in tanto sfugge a qualsiasi controllo, vive nella libertà e nel mistero, da solo o in compagnia di qualcuno [...]; vive di questa sua vita libera e segreta da una sera (o da un giorno) all’altra, e queste ore hanno una loro continuità. (p. 36-37)
Essere privati di questa no man’s land significa non arrivare mai a conoscersi davvero, ma soprattutto rinunciare alla possibilità di una piena autodeterminazione. Ecco perché bisogna essere disposti a lottare in nome di questo spazio interiore, che non necessariamente è spazio di solitudine, ma può essere invece occasione di un incontro più profondo e vero con l’altro che ci è affine. Ecco perché bisogna essere disposti a sacrificare ciò che ci tiene legati a una realtà di superficie, che ci fa sprofondare nella mediocrità di un certo vivere quotidiano, nel compromesso imposto da chi pensa di poter decidere di noi e del nostro destino: “basta cedere una volta – e non ci saranno più limiti, e tutto ti verrà tolto; dov’è il confine, Ejnar? Dove saranno allora mistero e libertà?”, p. 77). Si comprende per via, e con un’inaspettata commozione, che quella narrata da Nina Berberova è indubitabilmente una storia d’amore, ma prima di tutto è la storia dell’amore verso se stessi, che è preludio a ogni altro amore, e verso ciò che nella propria esistenza è inconoscibile, indeterminabile, e che nessuno può sottrarre a meno che non gli venga concesso. C’è un che di pungente, di vivo, nella prosa di Berberova, che rende universale la vicenda narrata e porta il lettore a interrogarsi sulla propria vita, con quella forza e quell’immediatezza che sono proprie della grande letteratura. La citazione di Tjutčev assume allora, in coda all’opera, una nuova valenza e la protesta del giunco mormorante diventa la lotta di chi oppone profonde radici alla forza lacerante della tempesta, di chi sa scegliere di essere fedele sopra ogni altra cosa alla propria coscienza, alla propria interiorità.
 
Carolina Pernigo