Chi cerca... non trova: 28 storie scritte e illustrate da Giulia Rosa in cui ogni "page not found" è un nodo che viene al pettine

Copertina di Pages Not Found di Giulia Rosa


Pages Not Found.
28 stories about life, love and other problems

illustrazioni e testi di Giulia Rosa
edizione bilingue italiano/inglese
traduzione di Jessica Villani
Hop! Edizioni, febbraio 2021

pp. 200
€ 20,00 (cartaceo)


Disponibile in tutte le librerie dallo scorso 14 febbraio, in corrispondenza non casuale con la data di San Valentino, l’ultimo lavoro di Giulia Rosa pubblicato da Hop! Edizioni esplicita già dalla copertina e dal titolo (che poi coincide proprio con quello della tavola prescelta, tra le più fortunate della popolarissima illustratrice) l’atmosfera generale delle “28 storie su vita, amore e altri problemi” contenute in volume. Perché nella fanciulla che abbraccia la sagoma vuota di una figura maschile immaginaria ci sono evidentemente tutta l’illusione e la disillusione di cui, presto o tardi e in senso lato, si farà esperienza nel corso della propria ricerca esistenziale; al punto che anche il nome di colui che appare come uno spasimante/spasimato in absentia – la nota dicitura “404 Error”, ovvero il codice del protocollo http che segnala l’impossibilità di una configurazione on line – assume il valore universale dei disinganni e dei fallimenti di cui ogni giovane donna (e di certo l’autrice, stavolta alle prese con un dichiarato autobiografismo) porterà prima o poi i segni. Nel molle abbandono della ragazza che si allaccia al collo e alle spalle di una presenza fantasmatica, ma soprattutto in quello che sembra essere il suo sguardo triste, tipico di ogni deludente agnizione, pare proprio di leggere il testo ottuso delle numerose “pagine non trovate” che sono quintessenza del desiderio frustrato, strappi e ritagli tanto virtuali quanto reali e di cui tuttavia – per autosabotaggio, autolesionismo, semplice mix di indolenza e abitudine? – non ci si vorrebbe mai definitivamente disfare.


28 storie
, dunque, anzi «28 storie di angoli che ho voluto ripulire»: Giulia Rosa utilizza il riferimento al campo semantico dell’igiene e della cura della casa per definire il senso di questa sua ultima prova creativa, in una confessione che sembra confermare l’urgenza e l’appropriatezza dell’arte anche in qualità di intervento terapeutico efficace. Assordata dal silenzio con cui i granelli di polvere si sono posati per troppo tempo in determinati interstizi della sua esperienza, ecco che l’autrice ha deciso di provare a liberarsene attraverso immagini e narrazioni minime, dando forma e colore a stati d’animo, traumi, ricordi, episodi e tranches de vie che non somigliano affatto ad hitchcockiane tranches de gateau. Le amarezze, difatti, hanno la meglio sulle dolcezze, e al netto di alcune tavole che spiazzano per la brutalità del turpiloquio e la corrosività del sarcasmo, un persistente senso di malinconia caratterizza ogni breve racconto, anche nei casi in cui l’aspirazione a un domani migliore viene esplicitata in forma di incoraggiamento, consiglio o preghiera. Non può essere che così, d’altra parte, se è vero che in ogni procedimento di purificazione il maligno – lutto, abbandono, rimpianto, avvilimento, rimorso, offesa, umiliazione e così via – va nominato e descritto in quanto tale, senza sconti sulla sua natura più autentica.

Intervallate da due pagine bianche dedicate ai rispettivi titoli (sempre accompagnati, questi, da ulteriori disegni puramente lineari), le storie si susseguono nella forma ibrida di due o più tavole con didascalia interna in lingua inglese (la traduzione italiana risulta in calce), e fin dalle primissime occorrenze si capisce come l’andamento sarà quello altalenante e finanche lunatico che va dall’atarassia più totale – come nel caso più che sintetico della doppia tavola di apertura: Non mi frega un ca**oa una sensibilità eccessiva, esasperata ai limiti del patologico, testimoniata, per esempio, già dallo sfogo irrisolto della prima storia, Armarsi:
«Perché sono sempre stanca? Perché sento tutto così tanto? Ogni piccola cosa mi arriva come l’allarme di una centrale nucleare. / Scrivere un messaggio, mandare una mail, chiamare qualcuno. Parlare e sentirsi una calibro 12 in gola. / Vivere armati mettendo se stessi nel mirino. / “Mi fai pena.” – “Fai la vittima.” Come faccio a dirti che sto male se i miei problemi sono inutili? Chi decide quanto si può soffrire? / “Su con il morale.” -  “C’è di peggio.” Come faccio a farti capire che il buio degli altri non rende più luminoso il mio? / Sto male. Sto male a dire di stare male. Sto male perché non dovrei stare male. Sto male perché dovrei essere felice. E invece non lo sono».

Lo stile
con cui Giulia Rosa dà forma e colore alle 28 storie è quello a cui l’illustratrice ha abituato da qualche anno il suo pubblico, ed è dunque fatto di linee grafiche precise e accostamenti di colori prevalentemente piatti e uniformi. Le onnipresenti e bellissime figure femminili, debitrici della fascinazione per le protagoniste del cinema della Nouvelle Vague, sono ritratte in primo piano o a figura intera in una varietà di atteggiamenti corrispondenti alle circostanze; i loro volti sono perfetti pur nell’eventuale assenza di tutti o alcuni tratti somatici, i loro corpi sono aggraziati e armoniosi, sospesi e fluttuanti su sfondi monocromi (ma non mancano, se necessario, chiari riferimenti secessionisti – come nel caso paesaggistico e stagionale di Sapere – o soluzioni più sofisticate e digitali che esaltano cieli nuvolosi, pavimenti a scacchiera, profondità acquatiche, tappezzerie ricamate). Ricorrenti, poi, i prediletti dettagli delle mani, tanto spesso isolate dall’inquadratura in un’ossessione quasi bressoniana, così come si conferma una costante dell’artista l’alternanza della resa realistica di situazioni e stati d’animo alla rappresentazione di similitudini e metafore con soluzioni visive che vanno dal sogno al simbolo alla fantasticheria (cuori e cervelli escono dai corpi per vivere una vita autonoma, gruppi di farfalle circondano i soggetti per renderli consapevoli della loro anima, palloncini di un bianco candeggiato prendono il volo staccandosi dagli sguardi come sacche sentimentali). La vera novità presente in Pages Not Found, o comunque il percepibile tratto distintivo rispetto ad albi precedenti quali Marina e Amore mio illuminato, è tuttavia la ricorrenza di grovigli di linee nere: può trattarsi di semplici ammassi informi, la cui sporcatura allude a una negatività ostile e nemica, oppure le parti più pasticciate riempiono contorni in modo approssimativo e insidiano sagome più nitide, a restituire il senso ambiguo e mutante di un’indefinitezza e di un’incompletezza inevitabilmente ansiogene. Proprio a questi tratteggi così simili a capelli arruffati e in disordine pare alludere con ogni probabilità anche la prima epigrafe al volume, quando l’autrice dichiara di dedicarlo «To all the chickens that have come to roost», vale a dire «A tutti i nodi che vengono al pettine».


 

Difficile e forse impossibile non rintracciare qualcosa di sé tra le “pagine non trovate” di Giulia Rosa: per quanto private o privatissime esse siano, la loro polvere – che non è certo di stelle – si sarà certamente posata almeno una volta anche tra le scartoffie più intime e segrete di chi andrà a sfogliare l’albo illustrato. Il pregio del volume, che riesce a non scadere mai nell’insidioso cliché della paturnia imbellettata, sta evidentemente nella sua capacità di restituire, sebbene in modo scientemente episodico e rapsodico, la complessità della psiche alle prese con l’assoluto e con il relativo, e dunque con i grandi dilemmi sempiterni e le piccole interrogazioni quotidiane («La vita.. che esagerazione, non trovi?» chiede con disincanto retorico una bionda lentigginosa in Esagerare, mentre fuma una sigaretta in pieno stile esistenzialista; «Vorrei fare tante cose nella vita. Così tante...» dice a sé stessa una ragazza senza occhi e dalle labbra nere in Sussurrare, poco prima che l’ombra della VITA in persona le insuffli nell’orecchio il cinico bisbiglio: «PSSS… Tu non hai soldi… né tette»). Non è detto (e del resto non è una promessa implicita) che a fine lettura si condivida il medesimo senso di pulizia dichiarato dall’autrice a compimento del lavoro; è probabile, al contrario, che ci si ritrovi semplicemente ad ammettere il medesimo bisogno di igiene. Individuate le proprie “pagine” (chiare o scure che siano, basta cercarle per trovarle) ogni opzione gestionale non sarà altro che una libera scelta: in ogni foglio, del resto, si nasconde un’ipotesi di futuro, sia essa quella di un origami, di un cassetto, di un cestino o di un falò.


Cecilia Mariani

 

 

Tutte le immagini degli interni del libro presenti nell'articolo sono pubblicate su concessione della Hop! Edizioni