#Sciascia100 - "In Sicilia con Leonardo Sciascia", spunti per una passeggiata metaforica

In Sicilia con Leonardo Sciascia Antonio Di Grado e Barbara Distefano



In Sicilia con Leonardo Sciascia. Nel cuore assolato e desolato dell’Isola

di Antonio Di Grado e Barbara Distefano
Giulio Perrone, 2021

pp. 144 
€ 15


Se si potesse anche oggi, a cento anni dalla sua nascita e a più di trenta dalla sua morte, chiedere a Sciascia di condurci per i luoghi a lui più cari della Sicilia, forse si resterebbe alquanto meravigliati. Perché bisogna tenere a mente una doppia funzione del concetto di Sicilia in scrittori come Sciascia, scrittori che contribuirono ad alimentarne il mito e nel contempo a demistificarlo, laddove al tipico soleggiato paesaggio di inesprimibile meraviglia si lega da sempre un più oscuro sottotesto, un luogo d’ombre e di malefatte, un congiungimento mostruoso tra ciò che potrebbe essere e che non deve avvenire, perché la luce trama col potere criminoso, e si rende complice, nel suo siffatto mostruoso parto, della sua sconfitta, rendendo l’isola terra bellissima e suicida. 


La Sicilia come metafora di un non luogo, di un contesto politico che si inerpica ben oltre lo stretto, lo travalica e attira l’Italia tutta. Una passeggiata nella storia ci proporrebbe il nostro, alle origini di tale mito e di tale illusoria e irredimibile conclusione. 


Come si fa quindi ad amarla questa Sicilia, e come si fa a cambiarla? Su questi temi si arrovella in polemica col preconcetto, Antonio Di Grado, eminente studioso sciasciano, direttore della Fondazione Leonardo Sciascia, professore ordinario, ora in pensione, di Letteratura italiana presso l’università di Catania. Nel capitolo introduttivo che ha quasi la caratteristica di un pamphlet ed è esaustivo come una lectio magistralis su cosa la letteratura rappresenti per i siciliani e sulle basi su cui si fonda questo concetto, con un elenco di pregiatissimi nomi, che annoverano De Roberto, Verga e Brancati, ma anche Borgese, Bufalino, Lanza e Tempio, per citarne solo alcuni, ci scorrono davanti opere portentose e imprescindibili, pilastri di una letteratura meridionale, che in tempi di superato regionalismo critico restano però basi di partenza assolute per capire quell’idea di Sicilia che così affascina e così respinge.


La capacità di guardare le macerie del passato e aprirsi alle illimitate possibilità del futuro, questo non luogo utopico rende l’isola irresistibile per i suoi scrittori, che ora allontanandosi ora restando - quasi ammaliati e incarcerati dalle idee di bellezza che in potenza potrebbero esprimere ma in atto non si concretano che tra le loro pagine - non possono non riflettere sulla natura di questo paradosso, che è storico, politico e letterario insieme. Non senza una caratteristica di tipicità che rende l’isola fulcro e limite di un pensiero che si fa lucidissimo e spietato.

“Un paradosso, del resto, quello dell’insularità: condizione, altrove, di apertura centrifuga, veicolo di espansione e conquista, di fuga e avventura (si pensi a un’altra letteratura insulare, quella britannica di Swift e De Foe, di Stevenson e Conrad), e invece, per gli scrittori siciliani, di chiusura diffidente e di difesa: da un mare di cui non parlano quasi mai, se non come il “mare amaro” di Verga che reca sventura e che, come un tempo portò razzie e invasioni, oggi porta un alienante e mendace “progresso”; da un mare al quale non resta che resistere aggrappati allo “scoglio”, voltandogli le spalle e fissando piuttosto un “centro” perduto, una terra sconsacrata”. (p. 26)


E di Sciascia che dire allora? Cosa fu per lui l’isola? Tante ed una, costantemente presente in ogni pagina della sua immensa opera, dagli esordi delle Parrocchie all’uscita di scena nel Cavaliere e la morte, come mirabilmente ci condensa Di Grado in questo passo:


“Finché Sciascia fu esule, la sua Sicilia fu il mondo, nel bene e nel male; ne fu “metafora”. Fu la Racalmuto de Le parrocchie di Regalpetra, coi suoi notabili vaniloquenti e trasformisti e coi suoi ragazzi avidi di pane e di verità; fu la zolfara de L’Antimonio, teatro dell’offesa al genere umano ma anche della presa di coscienza; fu il “cuore” abbacinato dell’isola, intossicato di tracotanza mafiosa e rovelli pirandelliani, dei “gialli” degli anni Sessanta. 

Fu, anche, teatro della memoria e laboratorio di moralità e di stile. Fu osservatorio sul mondo, a sfatarne le magnifiche sorti e progressive, a svelare qui come 

altrove le ricorrenti infamie del “contesto”. Fu un’utopia d’irriducibile diversità, di resistenza all’omologazione, d’intelligenza critica, concepita in assenza («vuote le mani, ma pieni gli occhi») di un’isola reale effettualmente diversa, che invece, nel frattempo, si andava omologando a quel feroce “contesto”. 

Fu, infine, l’ultimo approdo. Il «cancello della preghiera» intravisto, ma non varcato, dal laico Vice de Il cavaliere e la morte; il gesto di liberatoria indifferenza dell’«uomo della Volvo» nell’ultima pagina vergata dallo scrittore morente, in coda a Una storia semplice: «Uscì dalla città cantando». (p. 30)

Amabile quindi, e non scontato, sarà nel proseguire il divagare per i luoghi di questa passeggiata con la coautrice del libro, Barbara Distefano, che della Sicilia sciasciana affronta anche i non luoghi, quelli contro ogni stereotipo, quelli che non sono da cartolina, e che anche io in classe, nell’amena provincia cuneese, ho faticato a far comprendere parlando dei luoghi natii dello scrittore, perché una Sicilia dell’entroterra non fa parte di nessuna mappa mentale, non esiste per i non siciliani un inverno in cui faccia così freddo, in Sicilia, o un siciliano che non ami il mare, un paese piccolo da cui la gente voglia andar via e non brami di ritornarci nemmeno per le vacanze, come Racalmuto è e fu, inquadrata tra la zolfara e i campi, nel silenzio di vicoli che sembrano disabitati, isola nell’isola che non appartiene a nessun immaginario e proprio per questo luogo d’elezione per comprendere; un confine in cui sei immerso e da cui vuoi redimerti, come avvenne per Leonardo Sciascia. Cosa propone allora questa passeggiata?

Quello che si offre in queste pagine è un sentiero per lettori stanchi del turismo di massa. L’itinerario proposto collega una selezione di luoghi siciliani che, oltre a caricarsi di senso nella vita e nell’opera di Leonardo Sciascia, ci permettono di riflettere su alcuni dei più resistenti luoghi comuni sulla Sicilia, proprio attraverso le pagine di uno scrittore troppo spesso usato per alimentarli. (p. 46)

Il luogo da cui iniziare è spesso quello della fine, e non può che essere così anche per Sciascia, che ha nella sua fine il suo inizio, perché nell’assenza di quel lascito, ne comprendiamo oggi il peso e la portata più che mai; e non è poco per uno che aveva l'apparente leggerezza (solo leggendolo più volte appaiono moltitudini dietro la chiarezza) come cifra stilistica, mettendo insieme padri francesi e miti spagnoli, spade affilate ed impegno politico, luoghi di spirito e legami di sangue. Così l’autrice ci porta a conoscere Sciascia a Racalmuto, girando per il cimitero che custodisce la lapide bianca, con la frase scelta dallo scrittore stesso come epitaffio, quel “Ce ne ricorderemo di questo pianeta”, che non ha la pretesa di un brutto guizzo finale di immodestia, semmai, il ragionato e ironico, quanto lungimirante, monito di un futuro senza padri e senza memoria, visto che come la stessa Distefano ci ricorda, si tratta di una “battuta sarcastica, che in una lettera di Léon Bloy viene messa in bocca a Villiers de l’Isle-Adam, ma che lo scrittore potrebbe aver letto anche in un diario di Leo Longanesi”. 

E poi la scuola - di cui la stessa si è ampiamente occupata nel suo libro precedente (Sciascia maestro di scuola) - e ancora la zolfara e Palermo, con lo Steri, l’Inquisizione siciliana legata così da vicino alla Spagna, che Sciascia ci rimproverava di non aver studiato mai abbastanza, e i luoghi dei suoi romanzi, occasione fortuita di trovarsi in un eremo di controversa architettura e di scovarci un luogo ideale per le imposture di un sistema politico, da indagare in un romanzo stupendo come Todo Modo (e quindi al suo eremo di Zafer). 


Ma c’è anche l’afflato per la fuga, che ci conduce tra luoghi agognati e mai raggiunti, come i protagonisti del Mare colore del vino, convinti di aver trovato una via di fuga sicura e ripiombati sulle spiagge ragusane. Come a dire, che qualunque siano le rotte e i luoghi in cui cerchi di redimerti sempre la Sicilia, con i suoi paesaggi da cartolina, proveranno a rifilarti, spacciandotela per un luogo nuovo. E forse lo è, ogni volta che partiamo, ogni volta che torniamo, ogni volta che ne progettiamo una fuga e col pensiero non riusciamo a figurarcela che piena di bellezza, nonostante tutto, e per fortuna (o condanna) di chi la ama.


Samantha Viva