Chi siamo davvero? E soprattutto, esistiamo per noi stessi o per gli altri? “Chiaroscuro”, l’esordio di Raven Leilani










Chiaroscuro
di Raven Leilani
Feltrinelli, gennaio 2021

Traduzione di Stella Sacchini e Ilaria Piperno

pp. 230

€ 17,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Ci sono dei libri che sono incentrati sul lettore, che lo prendono per mano, che lo accompagnano nella storia spiegandogli con calma tutto ciò che accade, dall’inizio allo scioglimento finale. Chiaroscuro non è fra questi. La protagonista è Edith, una ragazza ventitreenne di colore rimasta orfana che si barcamena in una New York tutt’altro che ospitale. Ama dipingere ma ha smesso di farlo, e nel tempo lasciato libero da un lavoro che odia cerca compulsivamente uomini con cui andare a letto. La sua narrazione ipermateriale, concentrata sui corpi e sulle sensazioni fisiche di una New York resa volutamente riconoscibile solo a chi l’ha vissuta in prima persona, è estremamente focalizzata all’interno di se stessa e non sembra voler andare in profondità, né dentro di sé, né dentro di chi le sta intorno; per questo il lettore si trova sempre in bilico tra l’essere uno spettatore esterno di una narrazione estremamente fisica, carnale, e la tentazione di raccogliere invece il ruolo di chi viene chiamato a cogliere una realtà ulteriore che Edith accenna, pur rifiutando di parlarne.

“Sono un libro aperto”, dico, e intanto penso a tutti gli uomini che hanno trovato questo libro illeggibile. Con questi uomini ho commesso alcuni errori. Appena provavano ad andarsene da casa mia, mi buttavo per terra, aggrappandomi alle loro ginocchia. Li correvo dietro in corridoio con un flacone di Listerine in mano, dicendo, Sono un libro da ombrellone, posso sbarazzarmi di questo stile complicato, per favore, correggerò quel che c’è da correggere. (p. 18)
Il libro risucchia il lettore nel suo vortice frenetico, trascinandolo in un mondo che rimane, volutamente, estraneo: l’estraneità della narrazione aumenta vertiginosamente quando la protagonista si trova a far parte di un complicatissimo ménage familiare composto da un suo amante, la sua misteriosa moglie dai comportamenti ambigui, e una figlia adottiva di colore a cui nessuno in casa sa curare i capelli afro. La narrazione di Edith, rifiutando di cedere all’impulso umano di spiegare semplificando a posteriori tutto ciò che non si capisce, origina una storia così improbabile da essere plausibile: in un mondo in cui le storie di ciascuno restano chiuse a chiave dentro di sé, la storia di Edith, che si dipana tra traumatici trascorsi familiari, costumi da principessa Leila, e confezioni di burro di karité spalmato sul cuoio capelluto della piccola Akita, serve a farci capire di quante storie assurde e complicate si compone la storia di un unico essere umano, e di quanto sia impossibile dipanarle tutte in un unico racconto

Insomma, Edith ci ha avvertiti: sa di essere un libro illeggibile. Eppure, mentre restiamo avvinti dalle sue parole, e restiamo a guardare incapaci di distogliere lo sguardo, comprendiamo che in quel mondo incomprensibile sta accadendo qualcosa e che la vita della protagonista, alla fine, non sarà mai più la stessa. Ma sarebbe riduttivo definire questo particolarissimo romanzo come un racconto di formazione, una “coming-of-age story” della protagonista, perché Edith non ha mai la pretesa di mettere nero su bianco le sue conquiste e i suoi cambiamenti. La sua crescita rimane lì, appena abbozzata tra le sofferenze e le conquiste del suo periodo a casa di Eric, Rebecca e Akila. Tutto ciò che sappiamo, in un finale che è un inizio, è che Edith finalmente è in grado di farsi un autoritratto, e soprattutto di darsi una certa definizione molto significativa, che non era mai stata in grado di darsi prima. Tutto il resto, tutto quello che viene dopo l’ultima pagina, non siamo tenuti a saperlo.

Marta Olivi