«E se mi inventassi un artista?» Così nacque Nat Tate


Nat Tate.
Un artista americano 1928-1960

di William Boyd
Neri Pozza Editore, 2020

Traduzione di Laura Prandino

pp. 104
€ 19,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)



Raccontare una bugia a fin di bene, raccontarla a fin di male, raccontarla per vedere (e neanche poi tanto di nascosto) l’effetto che fa. Raccontarla grande, media o piccola. Raccontarla come se non fosse una frottola totale ma anche una mezza verità. Raccontarla a cuore quasi leggero e ritrovarsi a poco a poco sempre più oberati dal suo stesso peso. Raccontarla e arrivare alla conclusione che sarebbe stato meglio non raccontarla mai, oppure che sia stata – senza trucco e senza inganno – la migliore idea della propria vita; un azzardo, forse, ma inequivocabilmente la fatidica fiche tarocca con cui essere riusciti a sbancare un intero casinò. Se è vero che la vicenda dell’artista immaginario Nat Tate è stata tutta all’insegna della magnifica menzognauna menzogna congegnata (è il caso di dirlo) ad arte nel 1998 dal suo ideatore William Boyd, tra i più rinomati e premiati autori inglesi viventi – la riflessione sull’incertezza dei confini tra ciò che è reale e ciò che non lo è si pone come momento obbligato nel recensire il volume che racconta fatti, premesse e conclusioni di questo emblematico accadimento. Appena ripubblicato da Neri Pozza Editore nella sua versione italiana, Nat Tate. Un artista americano 1928-1960 propone, per l’appunto, sia la biografia dell’omonimo pittore inventata di sana pianta dallo scrittore, sia “la vera storia” della sua origine e della sua ventura nel mondo. Un caso clamoroso e sempre attuale, che a distanza di tempo fa ancora riflettere non solo sulla volubilità del Sistema dell’arte, ma anche sulla credulità umana generalmente intesa.

Sono passati più di vent’anni da quando la 21 Publishing, piccola casa editrice fondata niente meno che da David Bowie, ha dato alle stampe per la prima volta la breve monografia che illustrava vita, opere e morte del dimenticato Nat Tate. Più di due decenni, dunque, anche da quel 1 aprile – e mai data fu scelta con migliore e maliziosa auto-ironia – in cui la créme de la créme dell’arty world di New York si è data appuntamento nello studio di Jeff Koons per una grande festa di presentazione: il bel mondo dell’arte scopriva così, tra molta serietà e molta facezia, le gesta di un artista fino ad allora sconosciuto, o tutt’al più colpevolmente e ingiustamente caduto nell'oblio, e dava il via ufficiale alla giostra di reazioni contrastanti che ancora non hanno smesso di fare da corollario a questo sublime fake esistenziale oltre che editoriale. Perché Nat Tate, in realtà, non era mai esistito, e il suo creatore William Boyd aveva evidentemente inventato tutto, portando fino alle estreme conseguenze – vale a dire: la pubblicazione di un vero e proprio libro con tanto di fotografie! – l’idea avuta tempo prima con Karen Wright, sua direttrice nell’ambito della rivista Modern Painters, che avrebbe volentieri arricchito la scaletta del periodico con una rubrica incentrata su artisti immaginati letteralmente ex novo. La complicità di una star come David Bowie, che finanziò il progetto ammantandolo del suo carisma e della sua credibilità, fece il resto.

Ciò che accadde poi (e che ancora non ha cessato di accadere) somiglia di fatto e di diritto a una delle più emblematiche cartine di tornasole a cui il Sistema dell’arte sia mai stato sottoposto: un vero e proprio teatro della costernazione, rivendicazione e speculazione che passò in modo schizofrenico dall’accettazione acritica all’accusa di montatura, dall’esaltazione sperticata all’assuefazione di settore; un carosello in cui, dopo giri di valzer di interviste e dichiarazioni, e dopo ben tre documentari tv sulla “beffa di Nat Tate”, si arrivò a un’altra data limite, quella del 10 novembre 2011, in cui un disegno dell’artista dal titolo Bridge no. 114 (opera esso pure di William Boyd) venne battuto all’asta da Sotheby’s (il ricavato andò in beneficenza alla Artists’ General Benevolent Institution, un ente che fornisce aiuto finanziario agli “artisti in difficoltà”).

Ma chi era, insomma, il redivivo Nat Tate, autentico e farlocco new kid in town, croce e delizia di critici, studiosi, giornalisti e non da ultimo colleghi? Nato nel New Jersey nel 1928 e divenuto orfano molto presto, il futuro astro dell’Espressionismo Astratto sarebbe stato adottato da una ricca coppia di Long Island disposta a credere nel suo talento per la pittura al punto da fargli frequentare una scuola d’arte. In seguito avrebbe bazzicato l’ambiente artistico del Greenwich Village, a Manhattan, e si sarebbe distinto come giovane esponente della nuova maniera destinata alla consacrazione da parte del Modernismo più ortodosso. Peccato però che di lì a poco, in preda a una crisi di identità successiva all’incontro fatale con Picasso e Braque avvenuto durante il suo unico viaggio in Francia, l’artista emergente sarebbe precipitato in una profonda depressione sfociata nel suicidio: distrutti tutti i suoi lavori, il povero e infelice Nat si sarebbe dunque gettato da un traghetto nelle acque del fiume Hudson, e il suo corpo non sarebbe stato mai più ritrovato.

Come si vede - forte anche della complicità di Gore Vidal e John Richardson, che fu amico e biografo di Picasso - William Boyd aveva messo a punto un mix perfetto di circostanze riscontrabili e occorrenze non verificabili, un set finzionale effettivamente esistito in cui personaggi costruiti di sana pianta e ispirati a vecchie fotografie trovate nei mercatini dell’usato si muovevano sottobraccio con i nomi più altisonanti del Novecento: il tutto sullo sfondo degli anni Cinquanta, degli Stati Uniti, della Scuola di New York e dell’Espressionismo astratto, con il suo corollario di fama improvvisa e relative conseguenze nefaste sui vari protagonisti. Aveva innescato, per così dire, una vera e propria bomba a orologeria, pronta a esplodere per demolire senza eccezioni ogni certezza e autorevolezza di parte: «quella che veniva a crearsi», chiosa bene l’autore, «era una forma di propaganda inversa: non la verità dissimulata dalle bugie, ma la “Verità” spogliata di uno strato dopo l’altro fino a rivelare la vera bugia al suo centro». (p. 97)

Più che essere troppo bella per essere vera, la storia di Nat Tate era, in un certo senso, troppo credibile per essere falsa. Come un novello dottor Frankenstein, Boyd aveva creato il suo “mostro” (un mostro buono, non troppo dissimile da un archetipico trickster) con la stessa perizia con cui avrebbe dato nome e carattere a un personaggio di finzione, e aveva scelto per lui un curriculum tale da consentire solo agli scrutatori più scrupolosi il sospetto dell’inverosimiglianza; un po’ come fa l’autore di un romanzo giallo che dissemina qua e là i giusti suggerimenti perché i più accorti tra i suoi lettori possano arrivare già da sé alla soluzione. È lui stesso, del resto, a esplicitare questi aspetti:

«la biografia di Nat Tate era in fin dei conti costellata di indizi velati e di criptici rimandi alla sua effettiva natura immaginaria. Per me, l’autore, tutto questo faceva parte del piacere – un godimento nabokoviano per l’artificio e il gioco fine a se stesso – e cominciò a essermi chiaro che lo scopo principale del libro era diventato quello di destabilizzare, di sfidare il nostro concetto di autenticità» (pp. 96-97).

Nat Tate. Un artista americano 1928-1960 è un libro che si presta ad almeno due differenti approcci di lettura. Lo si può affrontare a partire dalla biografia, nella canonica e consapevole sospensione dell’incredulità, dando per buona la versione raccontata e rendendosi conto di non avere nessuna ragione, a tutta prima, per dubitare di alcunché. Oppure lo si può affrontare all’incontrario, dalla postfazione Nat Tate: la vera storia, in cui lo scrittore, come un prestigiatore in vena di svelare i suoi trucchi, smonta pezzo per pezzo il castello di carte non prima di averne rivelato progetto, fondamenta, edificazione e inaugurazione. In entrambi i casi, non si potrà fare a meno di meditare non solo sulla labilità del confine tra vero e falso, autentico e finto, ma anche sulla nostra attitudine a muoverci proprio a ridosso di quel diaframma così sottile e permeabile. Una linea sottile e scintillante come il fiat di ogni atto creativo, e sulla quale l’autore, per primo, affida la sua ultima riflessione

«rassegnato al mio destino di dottor Frankenstein rimiro Nat Tate, il mostro che ho creato, e devo ammettere che provo uno strano senso di sconcertata soddisfazione. Non mi sarei mai aspettato che sopravvivesse tanto a lungo, e il mio tentativo di trafiggerlo e distruggerlo con un paletto nel cuore – me ne rendo conto – era destinato al fallimento. Qualcosa mi fa pensare che potrebbe essere immortale». (p. 103)



Cecilia Mariani