#CriticaLibera - Ho scelto il mio posto, è nel mistero. “Sempre ateo, grazie a Dio”, le vigorose idee di Luis Buñuel

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Sempre ateo, grazie a Dio
di Luis Buñuel
Edizioni E/O, ottobre 2020
PBM diretta da Goffredo Fofi

pp. 96 

€ 8,00 (cartaceo)

«Pochi artisti del nostro secolo hanno, come lui, così mirabilmente e anticamente descritto le passioni umane e le loro miserie, l’impossibilità delle liberazioni individuali (e le mitizzazioni di queste), così come l’impossibilità di soluzione dei conflitti che oppongono la realizzazione individuale della società, a qualsiasi società organizzata, di per sé costrittiva e oppressiva, così come l’inanità degli slanci migliori dell’individuo e alla solidarietà e alla trasformazione. Restava in lui, o ritornava, qualcosa di un pessimismo in definitiva cattolico. L’uomo non ha riscatto».
Era il 1995 quando Goffredo Fofi scriveva di Luis Buñuel in Come in uno specchio: i grandi registi della storia (Donzelli). È ottobre del 2020 quando lo stesso Fofi cura e dirige per la collana PBM (Piccola Biblioteca Morale), edita da E/O, la pubblicazione di Sempre ateo, grazie a Dio, una breve raccolta delle «più franche espressioni della filosofia bunueliana tratte dalle interviste concesse a chi egli sentiva più vicino» (p 8). 

L’apparente contraddittorietà della formula «Sono ateo, per grazia di Dio» ci suggerisce molto di più rispetto alla complessità «di uno degli spiriti più liberi e degli artisti più lucidi e coerenti del Novecento» (p. 7). Per alcuni, Luis Buñuel era fondamentalmente un cristiano nonostante se stesso. Egli ammise di essere stato profondamente influenzato dalla sua educazione religiosa: da bambino studiò presso i Fratelli delle Scuole Cristiane, poi, fino al diploma, in un collegio dei Gesuiti, in cui divenne un alunno modello. «Nel mio paese (Calanda) – parlo degli anni della mia adolescenza, verso il 1913 – si può dire che vivevamo in pieno Medioevo. […] Le campane segnavano le ore religiose: messe, vespri, angelus, campane per i moribondi; rintocchi di campanone, gravi, profondi, per la morte di un adulto o rintocchi di una campana meno triste per la morte di una bambino» (p. 29). Mai, il giovane Buñuel avrebbe messo in dubbio quella fede medievale che rimaneva intatta, nonostante i primi incontri con la morte, l’amore e il sesso. «Ma l’entusiasmo, per qualsiasi cosa, è sempre effimero» (p. 53). 

Luis Buñuel e Slvador Dalí

È con L’origine delle specie di Darwin, Sade, Freud e Marx, che l’artista spagnolo inizia a scuotere la sua coscienza. Studia Lettere e Filosofia all’Università di Madrid, dove conosce Salvador Dalí e Federico García Lorca, e nel 1923 arriva a Parigi e lavora in qualità di assistente alla regia di Jean Epstein. «Capii che ciò che mi era successo fino a quel momento era semplicemente che mi avevano nascosto la verità, mi avevano ingannato completamente su quanto riguardava la religione, soprattutto la morale» (p. 54). Quella verità, tanto cara agli uomini, veniva smembrata, confutata e derisa. Verità e religione erano, per Buñuel, le due nemiche del sogno, del caso, della risata, del sentimento e soprattutto della contraddizione, tutte cose estremamente preziose alla vita dell’artista. «L’ateismo – il mio, almeno – porta inevitabilmente ad accettare l’inesplicabile. Tutto il nostro universo è mistero» (p. 67). Accogliere il mistero della vita significa godere di una felicità quasi innocente. 

Con la lettura appassionata di Sade, il regista spagnolo comprese la sua assoluta compenetrazione con il surrealismo, che lo aiutò a liberare le sue energie creative, proprio quella creatività nata tra i banchi pedagogici della sua infanzia cattolica. A 29 anni, dopo aver incontrato a Figueres Dalí, decise di girare il suo primo cortometraggio incentrato su due sogni, il suo e quello del pittore spagnolo, che lo incorporò, per tre anni, al movimento surrealista: Un chien andalou.
Intorno alla produzione di questo film, ancora oggi, ci sono alcune indiscrezioni su quale fosse il reale rapporto che legava Buñuel, Dalí e García Lorca. A tal proposito è stato girato un film, di scarso successo, Little Ashes, diretto da Paul Morrison nel 2008.
Tornando al nostro cortometraggio, Henry Miller, scrittore, pittore, saggista e reporter di viaggio statunitense, a proposito della reazione del pubblico alla visione di Un chien Andalou, scrisse: «Il pubblico sussultò, facendo cigolare le loro poltrone, quando un enorme occhio apparve sullo schermo e fu tagliato con indifferenza da un rasoio, e il liquido dell’iride balzò sul metallo» (da The Cosmological Eye, London, 1945, p. 57).


L’aggressività apparente della pellicola condusse critici e pubblico a reputare il regista un uomo crudele e blasfemo. Indimenticabile la scena del taglio dell’occhio, in realtà di un vitello morto, il cortometraggio è privo di spiegazioni razionali, in cui il regista assalta la suscettibilità del telespettatore, scioccandolo nel vero senso surrealista. Inoltre, le immagini mostrate hanno una chiara implicazione sessuale, associate all’ansia, alla paura, al senso di colpa, persino all’orrore, lasciti questi di quell’indottrinamento religioso in cui il sesso era cosa non buona e ingiusta.
«Appartengo, e molto profondamente, alla civiltà cristiana. Sono un cristiano per cultura, non per fede» (p. 56). 

Tuttavia, forse i film di Luis Buñuel non anelavano l’attenzione dei censori antagonisti o dei pressure-groups, turbando il mondo dello spettacolo; non desideravano sconvolgere i telespettatori con scene incomprensibili alla verità. Il regista esprimeva con onestà il suo mistero e la sua potente immaginazione. Egli stesso ammise che l’anticlericalismo e la crudeltà non erano parte della sua produzione consapevole, come pure i leali opposti, religione e bontà, creando numerosi malintesi sul contenuto autentico delle sue pellicole.
Pertanto, la sua dichiarazione d’intenti «Sono ateo, per grazia di Dio» lascia, scherzosamente, la porta socchiusa ai devoti del "tempio Buñuel".
«Alla mia età lascio dire. La mia immaginazione continua a esistere e, nella sua inattaccabile innocenza, continuerà a sostenermi fino all’ultimo respiro» (p. 70).

Olga Brandonisio