Company Parade: un piccolo manifesto di libertà e affermazione

Company Parade
di Margaret Storm Jameson
Fazi, 3 ottobre 2019

Traduzione di Velia Februari

pp. 404
€ 18 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)


Londra, un mese dopo l’armistizio, una nuova epoca che fatica a staccarsi da quella che l’ha preceduta. Per tutta la durata della lettura, più volte dovrò ricordare che il mondo raccontato da Margaret Storm Jameson in Company Parade, non è quello contemporaneo: di fronte a una scrittura tanto diretta e moderna, tematiche e spunti ancora attualissimi, è estremamente facile, infatti, dimenticare che questo piccolo gioiello è stato pubblicato per la prima volta nel 1934, ambientato più di un decennio prima, ma potrebbe benissimo essere la realtà che noi tutti conosciamo, quella in cui ci muoviamo più o meno liberamente. E questa, in effetti, non è che sia una cosa poi tanto positiva se ci si pensa bene. Ma ci torneremo meglio tra poco.
Intanto cerchiamo di tenere bene a mente il nome dell’autrice, una riscoperta di cui ringraziamo Fazi, che con questo primo romanzo porta all’attenzione del pubblico italiano il ciclo de Lo specchio nel buio, come la stessa Jameson ha definito le sue storie e che, aggiungo io, hanno la straordinaria capacità di trascendere il tempo e lo spazio, appunto: nel rappresentare la società inglese di inizio secolo, racconta in realtà sentimenti, passioni, ambizioni e dubbi degli uomini e delle donne di ogni tempo, ma soprattutto del nostro.

L’immedesimazione e il superamento di barriere temporali e geografiche è talmente alto che si resta quasi sconcertati quando, qui e là nel corso della narrazione, incappiamo in elementi che ci riportano chiaramente all’epoca in cui il romanzo è ambientato. Se da una parte tale caratteristica diventa una qualità del romanzo e della scrittura di Jameson – abilmente resa dalla traduttrice Velia Februari – dall’altra lascia un po’ l’amaro in bocca nel constatare che un secolo dopo molti dei problemi messi in luce dalla storia di Hervey e degli altri personaggi – la guerra e il reinserimento dei reduci, le discriminazioni di genere, il rapporto conflittuale fra creatività e committenza, solo per citarne alcuni – hanno forse mutato forma, ma ancora persistono. Jameson costruisce un romanzo corale ricchissimo di personaggi – talvolta anche troppi da seguire con la dovuta attenzione che ognuno di loro meriterebbe – e di storie che si intrecciano fra loro, al cui centro c’è lei, Hervey, «una giovane donna [che] arriva a Londra nel mese immediatamente successivo all’armistizio. È inesperta, povera, ambiziosa, sfiduciata», ma tenace e ambiziosa, che cerca di farsi strada nel mondo letterario, spesso scontrandosi con i suoi aspetti meno edificanti. Hervey è una madre che lascia il figlio alle cure di una brava donna in campagna per andare in città a cercare fortuna e assicurare benessere economico a lui, fama e successo a sé stessa. Ha un marito, un omuncolo che lavora per l’Air Force e che è del tutto incapace di prendersi cura di loro, assumersi responsabilità, dimostrare lealtà perfino, da cui Hervey si allontana sempre più, gli antichi sentimenti provati che si fanno via via più inconsistenti. Penn, suo marito, è probabilmente il personaggio più insopportabile e lagnoso dell’intero romanzo – ben più insopportabile, a mio parere, di William Ridley, rivale di Hervey e non certo esempio di moralità e correttezza – un inetto, perdonate la ripetizione, ma è il termine che meglio lo descrive. Inetto ma pericoloso, perché subdolamente riesce sempre a cavarsela e impietosire la moglie, del cui talento e ambizione è in fondo geloso:
Gli piaceva quando lei si comportava come una scolaretta e non quando lei gli parlava del loro futuro, ricordandogli che aveva delle responsabilità. Si sentiva ferito nell’orgoglio e la puniva dimostrandosi indifferente. In realtà non poteva soffrirla quando era autoritaria e ambiziosa. Avrebbe voluto annientare quelle sue qualità; ascoltare pazientemente non era da lui. Più lei si faceva combattiva e ansiosa, meno gli importava. Era come se la vitalità della moglie in qualche modo lo sminuisse. (p. 81)
Hervey dal canto suo è una donna che si muove in un mondo prettamente maschile, o comunque manovrato da uomini, con i quali – grazie infinite Margaret – talvolta riesce, nonostante la giovane età e insicurezza, a creare un legame tra pari, forte del suo desiderio di successo e affermazione. Non particolarmente bella e brillante in società, Hervey è però testardamente determinata a riuscire, nonostante i numerosi fallimenti e gli sgambetti di altri che sgomitano per arrivare al successo. Sogna di imporsi come scrittrice, raggiungere la fama e il benessere economico necessario per garantire al figlio una vita di agi e comodità, da restituire in parte anche alla madre, che un matrimonio fatto nonostante l’opposizione della famiglia ha escluso da ogni legame e ricchezza.
Sapeva che non sarebbe tornata indietro, anche senza doverci riflettere. Era troppo insoddisfatta, posseduta dal demone dell’energia e dell’ambizione. Di fronte alla vaga prospettiva di una rinuncia, subito pensò che non poteva tornare nello Yorkshire, vivere nel completo anonimato. Doveva pur avere qualcosa da dimostrare al mondo. (p. 20)
Per mantenersi in città ha trovato impiego in un’agenzia pubblicitaria, nella quale in effetti non brilla per talento ma che è l’ambientazione ideale per raccontare – anche in questo caso con straordinaria modernità – le contraddizioni e la vacuità di un mondo fatto di illusioni e falsità.
[…] aveva ventiquattro anni, un figlio di nome Richard e che si guadagnava da vivere (o meglio, faceva la fame, dal momento che ancora non aveva realizzato niente di buono) come autrice per la pubblicità. (p. 14)
Ciò che forse ho apprezzato di più di Hervey è la sua assoluta trasparenza: non finge di voler cambiare il sistema, non si lagna per le aspirazioni letterarie mortificate da quel lavoro, né imputa tutta la colpa dei suoi insuccessi alla difficoltà di essere donna e praticamente sconosciuta. No, Hervey semplicemente prende il lavoro in agenzia per quello che è, un mezzo di sostentamento, trasalendo solo quando le bugie raccontate al pubblico si fanno davvero troppo pesanti da sostenere, quando cioè toccano il nervo scoperto della guerra da poco conclusa. Ha dei principi e rifiuta occasioni che vi andrebbero contro, ma resta sempre molto consapevole della necessità e della sua condizione precaria, del peso delle responsabilità – suo figlio, in primis – che grava quasi esclusivamente su di lei.
È un personaggio affascinante perché complesso e contraddittorio, che Jameson tratteggia con assoluta onestà, dai dialoghi ai dubbi, le incertezze, i tormenti, le passioni, gli sbagli e i lampi di gioia e bellezza. Hervey è una donna che tenta di farsi strada senza ricorrere a sotterfugi, senza usare la femminilità a proprio vantaggio e talvolta è assolutamente ingenua e sprovveduta, ma ancora una volta umanissima. Ed è, naturalmente, un modello femminile decisamente moderno, con cui ancora oggi possiamo confrontarci e ritrovare un po’ di noi: ha fame di indipendenza e successo in un mondo che tutto sommato la vorrebbe moglie e madre remissiva pronta a mettere da parte i propri desideri a favore di quegli degli uomini della sua vita, è piena di passione e orgoglio, ma spesso cede alle convenzioni, va detto più per timore della solitudine che del giudizio della società, di cui in effetti non si cura minimamente. È imperfetta, piena di contraddizioni, incline a farsi dominare dai sentimenti e dalla paura, fragile e forte insieme. Viva, reale.
Tanti i personaggi quanto le tematiche e gli spunti affrontati dall’autrice, tra cui è impossibile ignorare la riflessione sulla guerra e tutto ciò che essa comporta: ancora una volta, Company Parade rivela tutta la sua contemporaneità nell’analizzare il problema dei reduci e del loro difficile reinserimento nella vita civile, l’orrore del conflitto bellico e le atrocità impossibili da dimenticare, la politica e l’interesse economico che dominano certe scelte, ieri come oggi purtroppo. Gli interessi di pochi determinavano e determinano tuttora le vite di molti. Grazie a una scrittura intima ma mai sentimentale, attenta all’indagine psicologica del personaggio e alle contraddizioni dell’animo umano, Jameson racconta anche la guerra e i sentimenti senza mai cedere al pathos fine a sé stesso ma riuscendo comunque a connettersi al lettore, che forse proprio nel contrasto morte-vita, oscurità-luce, riesce a farsi più partecipe della storia con tutte le sue implicazioni e spunti.

Dal canto mio, di questa storia, ciò che più ho trovato interessante e fonte di riflessioni è appunto la modernità della stessa, le considerazioni mai banali su modelli femminili, sentimenti e contraddizioni dell’animo umano, l’orrore della guerra e tutto ciò che implica e, non da ultimo, il ritratto forse non particolarmente edificante ma di sicuro interessante della società letteraria e culturale, in cui ancora una volta riconosciamo tratti e modalità che hanno molto in comune con quella stessa in cui ci muoviamo oggi.
Al lettore il piacere di scoprire le peripezie di Hervey per le strade di Londra, nei salotti dove stringere amicizie con i potenti, nei caffè e nei pub dove ritrovare gli amici veri e sé stessi. Dimenticando, per più di un momento, l’epoca lontana in cui il romanzo è nato e la storia si sviluppa. Perché, in fondo, passioni, sentimenti, ambizioni, vizi e virtù dell’uomo restano invariati.

Debora Lambruschini