#CriticaNera - L'ultimo regalo di Leonardo Sciascia: "Una storia semplice"

Una storia semplice
di Leonardo Sciascia
Adelphi, 1989 (37^ ed.)

pp. 66
€ 9 (cartaceo)



In un'epoca in cui un romanzo dopo sei mesi è vecchio e un autore deve pubblicare ogni anno qualcosa, pena l'oblio, è bello, a volte, ricordare libri che ancora dopo 30 anni sono freschi come appena pubblicati. Sto parlando di Una storia semplice, l'ultimo poliziesco di Leonardo Sciascia, pubblicato nel 1989, poco prima che lo scrittore di Racalmuto ci lasciasse orfani di un grande maestro della letteratura e un intellettuale sopraffino.
Una storia semplice si legge in un'ora, è un romanzo brevissimo, ma complesso (a discapito del titolo) e, a tratti, quasi inquietante. Perché è come se Sciascia avesse saputo, mentre lo scriveva, che quello era il suo ultimo poliziesco, la sua ultima cartuccia.
Come il lettore avvezzo alla letteratura sciasciana ben sa, normalmente il caso nei polizieschi del siciliano rimane in gran parte irrisolto e l'atmosfera che si respira è quella di una generale sfiducia nei confronti delle istituzioni. Ne Il giorno della civetta, ad esempio, il capitano Bellodi riesce a risolvere il caso, smascherando una trama mafiosa che dalla Sicilia porta a Roma (la famosa linea della palma), ma la sua indagine viene abilmente smontata durante la sua assenza per malattia, e l'omicidio di Colasberna ricondotto a un più banale caso di corna. E in A ciascuno il suo, l'investigatore viene addirittura definito "un cretino" nell'ultima battuta del romanzo.

Come ben sottolineato da più parti, spesso il poliziesco di Sciascia si configura anche in senso parodico rispetto al canone anglosassone del genere. E l'ironia è aspetto fondamentale, colonna portante di questo modo di pensare e scrivere, che Sciascia riprende direttamente da Pirandello, e poi ereditano in Italia Camilleri e -caso emblematico di siciliano mancato- in Spagna Vázquez Montalbán. Ma che è possibile riscontrare in moltissimi scrittori siciliani contemporanei, specie del genere giallo, come Gaetano Savatteri, Vincenzo Maimone, Alberto Minnella e Santo Piazzese. Quasi a voler delineare un carattere genetico dello scrittore siciliano di romanzi polizieschi. E una genealogia letteraria, da Pirandello (che teorizzò l’umorismo) a Minnella (il più giovane della quaterna elencata poc’anzi), esiste.

In Una storia semplice, l'omicidio di Roccella viene risolto e il colpevole addirittura ammazzato dal brigadiere. E si noti brigadiere: questori e pubblici ministeri fanno, in questo ultimo romanzo, la figura degli inetti, inventandosi ipotesi di suicidio strampalate e senza fondamento, talmente surreali da innervosire il lettore. Addirittura il Procuratore della Repubblica si fa vanto, di fronte al suo professore d'italiano del liceo, della propria ignoranza che non gli ha impedito di fare carriera come funzionario dello Stato. Ma il docente, mirabilmente interpretato nella versione cinematografica da Gian Maria Volonté, con sconcertante disincanto gli risponde che se fosse ancora più ignorante, forse starebbe ancora più in alto. Viene quasi da chiedersi: ma è possibile che nell’universo sciasciano chi sta ai vertici della piramide sia così "cretino"?

Il caso alla fine si risolve, si è detto. Ma solo in parte, nel senso che la verità viene a galla, il colpevole messo fuori gioco, ma giustizia non sarà fatta, perché il complice dell'assassino lo scopre solo un personaggio secondario, l'uomo della Volvo, che rimane anonimo tutto il romanzo e, alla fine, quando capisce decide di non fare nulla: ma l'inazione di questo personaggio non è indifferenza, è sfiducia nei confronti delle istituzioni. Dato che il complice indossa l'abito talare, è un parroco, l'uomo della Volvo ben sa che nessun ufficiale di polizia muoverà mai un passo contro di lui. Tutta la tensione dell’ingiustizia si risolve nell’ultima riga, con pochissime parole e un carico d’ironia che lascia il lettore interdetto, indeciso sul da farsi: ridere o indignarsi?

Alessio Piras