#CriticaLibera - La vita in destino. I memoriali di Simone de Beauvoir


«Ciò che vi è di terribile nella morte […] è che trasforma la vita in destino»: la citazione dal romanzo “La speranza” di Andrè Malreaux è saccheggiata da “L’essere e il nulla”, il trattato con cui Jean-Paul Sartre presenta nel 1938 alcune teorie sulla condizione dell’esistenza umana, in seguito conosciute (ovvero: tradite) con “esistenzialismo”. Non sembrerà di compiere un torto contro Simone de Beauvoir esordendo da un testo di Sartre, suo compagno e anch’egli scrittore plurale, la cui teoria dell’esistenza somministra un alito di significato, per quanto arbitrario, dentro alcuni stati emotivi (la nausea, l’angoscia, l’alienazione) e speculativi (la figura dell’alterità dentro l’esclusione che segue la presa di coscienza dell’identità) che il secondo conflitto internazionale renderà certo più acuti.

“Come si diventa ciò che si è”, dice il sottotitolo dell’opera autobiografica di Nietzsche “Ecce Homo”, ed è quanto potrebbe compendiare, almeno nella formula bruta per chi abbia fretta, l’orientamento teorico entro cui sono composte le opere contagiate dalla filosofia dell’esistenza. Il destino si insinua nei discorsi, li insidia, promette l’avverarsi del miraggio del senso: appena oltre l’orizzonte della vita, quando non sembra dispiegarsi altro che l’in-significanza di un mondo spogliato dalla figura di Dio, piuttosto comoda nell’articolazione di quel certo orizzonte, sarà necessario contemplare la somma delle proprie opere. Adeguate all’ideale di libertà che affranca gli uomini dalle dialettiche (servo/padrone, uomo/donna, identità/alterità), dal dualismo enfatico dietro cui la filosofia si è un po’ mascherata nella sua ambizione ai “distinguo”, allora si potrà dire che l’opera sarà simulacro del corpo, sostituendolo alla morte, simile a una maschera di cera che sottragga al volto certi lineamenti prima dell’intervento della decomposizione. I corpi possono essere defraudati: dalla malattia, dalla morte, ma in forma più puntuale dal “diventare adulti”, dalla crescita, quel percorso che permette di essere esperito nient’altro che alla conclusione: dietro, l’opera compiuta; davanti, il progetto dell’opera da compiere. Se ogni opera, inteso nel significato ambiguo di “azione compiuta” e “oggetto d’arte”, non è che la sublimazione di una certa età dell’esistenza, lo scrittore diviene allora un vivente che esperisce due volte la vita, più fortemente, senza mancare di contraddizione: non servirà affermare di nuovo le coppie oppositive attraverso cui la letteratura è spesso dipinta (“ascetica e puttana”, la dice Giorgio Manganelli in uno degli improvvisi raccolti in “Il rumore sottile della prosa”, Adelphi), ma presentarle nell’unicità esclusiva dell’individuo.

È allora necessario esordire dalla conclusione per introdurre i memoriali che Simone de Beauvoir prepara dal 1958 al 1981. Come? L’ultimo, “A conti fatti” (tr. B. Fonzi, Einaudi) non è forse pubblicato dal 1972? Ebbene, nel 1980 la malattia e dunque la morte trovano rifugio in Sartre, depauperandolo di fatto di fatto prima della vista, dunque della lucidità: gli ultimi giorni non saranno che la lotta, già in tasca la sconfitta, contro l’avversario che si insinua e che tuttavia diventa inassimilabile, il delirio che precede l’interruzione delle funzioni vitali: tanto più doloroso, quanto accorto, senza difetti di coscienza. L’anno successivo, Simone de Beauvoir prepara un documento sui dieci appena trascorsi. «Ci separa la sua morte», scrive, «La mia morte non ci riunirà. Così è; ed è già bello che le nostre vite abbiano potuto tanto a lungo proseguire all’unisono». Nessuna arrendevolezza; piuttosto, la stesura dell’epilogo.

«Sono nata il 9 gennaio 1908, alle quattro del mattino, in una stanza dai mobili laccati in bianco che dava sul boulevard Raspail», dice il prologo del testo che ha per titolo “Memorie di una ragazza perbene” (tr. B. Fonzi, Einaudi): la cronologia non è che uno degli stili della biografia; la vita ha più la forma di un innesto continuo del ricordo e del progetto nell’istante dell’esperienza, che dell’andamento tranquillo. “Diventare”, come nella celebre citazione de “Il secondo sesso” (tr. it. R. Cantini – M. Andreose, Il Saggiatore) per cui «donne non si nasce, lo si diventa», richiede l’intervento della biologia, dell’ambiente, dell’anelito individuale che agisce per differenza; di un tempo modellato, plagiato, “epicizzato”. La «stanza dai mobili laccati di bianco» non può che essere esordio: vi seguiranno, per altri tre volumi, l’epica di una ragazza nata perbene, l’alterità da cui è stata investita, quella da cui ha provato ad affrancarsi, quella da cui invece è stata strappata a forza. Più tardi, Simone (così si potrebbe definirla, distinguendo come per Marcel Proust tra autrice e voce-narrante), prima che adolescente, scriverà della «mischia umana» in cui desidera immergersi, il turbinio della vita; una «mischia» che non distingue gli uomini dalle opere d’arte, tiene insieme le chiacchierate con Sartre, gli impeti di passione per lo scrittore americano Nelson Algren che la investiranno negli anni ’50, i romanzi conclusi e quelli alla prima stesura, i trattati teorici, il cinema di Charlie Chaplin. «Una voce diceva: bisogna scrivere; noi obbedivamo, coprivamo pagine e pagine di scrittura: per arrivare a cosa? Chi ci avrebbe letto? E cosa avrebbero letto?», registra “L’età forte” (tr. B. Fonzi, Einaudi), il memoriale dell’adolescenza. Trasformare la vita, dunque, “diventare” se stessi. Dove Sartre non sa affrancarsi dall’addizione (Io-coscienza + Altro), Simone de Beauvoir osserva il turbinio del mondo e procede per differenza: tutti gli altri “meno” me stessa, una forma particolare dell’Io-coscienza. A causa della sua condizione femminile? “Il secondo sesso” descrive la macrocategoria delle donne come alterità per eccellenza: dove l’uomo è Io, la donna è Altro; non che le costringa alla relegazione, anzi, piuttosto a una emancipazione più che dispendiosa dal movimento invischiante della dialettica.

“La forza delle cose”, (tr. it. B. Garufi), attraverso cui l’autrice si racconta dentro la grande stagione intellettuale del secondo dopoguerra, si conclude con una nota di commento a quanto raccontato durante le pagine precedenti. «Quel che di più importante, di più irreparabile mi è successo dal 1944, è che […] sono invecchiata. Questo significa molte cose. E prima di tutto il mondo intorno a me è cambiato: si è rimpicciolito e assottigliato», e ancora, «Non arrivo a crederci. Quando leggo stampato: Simone de Beauvoir, è sempre una giovane donna che mi parla […] posso rendermi conto, stupita, fino a che punto sono stata defraudata». Tale defraudazione non è tuttavia che una nota a margine dell’opera, la «terza età» (il riferimento è a un saggio della stessa de Beauvoir dedicata alla condizione degli anziani) si presenta come un calcolo delle opere compiute: “ho ancora tanto da dire!”, è la preoccupazione, “il destino non può compiersi così velocemente”. Lo sguardo dell’Altro, l’occhiata che conforma l’individualità a se stessa, agisce su un corpo inerme: allora si chiama lettore. Basterà un nuovo volume perché l’inquietudine sia placata: «non mi è più necessario prendere come filo conduttore il trascorrere del tempo; in certa misura terrò conto della cronologia, ma organizzerà i miei ricordi soprattutto intorno ad alcuni temi», si legge in “A conti fatti”. Abbandonare la cronologia significa “diventare” opera, letteraria e politica, speculativa e pratica: trasformarsi in destino.

Antonio Iannone