#IlSalotto - «Sono cresciuta in una famiglia che preparava i bambini alle emergenze»: Vera Giaconi e le sue "Persone care"



Persone Care è l’ultima raccolta di racconti della uruguaiana Vera Giaconi. Pur trattandosi di racconti con vita propria, troviamo un flusso di personaggi e di sensazioni che si susseguono per tutta la narrazione. I temi trattati in un racconto si sviluppano anche nei successivi, come se ci fossero diversi punti di vista dello stesso tema, i personaggi si incastrano fino a diventare quasi un romanzo corale.
Le tensioni, i desideri, le angosce, le ribellioni, un insieme di impulsi violenti e talvolta inconfessabili, che si celano dietro ai rapporti umani e soprattutto familiari, sono il cardine di tutti i racconti. Nonostante in sottofondo vi sia l’esperienza dell’autrice in Sud America dell’autrice, i racconti non affrontano grandi temi storici o esperienze legate ai problemi sociali connessi, è piuttosto il quotidiano il fulcro in tutta l’opera. Protagonista è la vita di tutti i giorni nella quale si crea una frattura, con il passato, con la propria anima, con la propria famiglia, fino ad arrivare a un disorientamento e a una rottura nella quale i protagonisti si perdono e, talvolta, forse, si ritrovano con un ruolo diverso, inaspettato.
Una domanda resta, a mio avviso, chiave, ovvero: “Ma quanto ci costa investire nei rapporti con le persone care? Quanto è faticoso? E perché spesso, pur in famiglia, non si riesce a essere se stessi?”.
Un incontro a Vigevano presso la Libreria "Le notti bianche" è stato l’occasione per chiedere direttamente a Vera di rispondere a queste domande e ad altre curiosità legate al suo libro. 


Persone care
di Vera Giaconi
SUR, 2018

Traduzione di Giulia Zavagna

pp. 160
€ 15,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Spesso formuliamo giudizi sulle persone, anche in famiglia, e soprattutto quanto le vediamo diverse da come noi le abbiamo “costruite o pensate”, quando si rompono gli equilibri? Quanto possiamo essere cattivi lettori delle persone che ci circondano?
Purtroppo spesso siamo dei cattivi lettori della realtà, ci sbagliamo in continuazione soprattutto con le persone più vicine, ed è ancora peggio se fanno parte della famiglia, perché queste persone funzionano come specchio di noi stessi. Ad esempio, nel rapporto tra due fratelli, fatichiamo a giustificare i nostri fallimenti, perché abbiamo avuto gli stessi genitori, gli stessi insegnamenti, lo stesso percorso. Eppure possiamo vivere vite completamente diverse e questo, talvolta, genera uno sguardo alterato che può portare conflitti.

Nel racconto Limbo, affronti il tema della morte. Cosa ti ha portata ad affrontare questo argomento?
Ho scritto il racconto perché io stessa mi ero fatta domande sulla morte, ma non avevo le risposte. Farmi domande scomode come in Limbo mi ha permesso di arrivare a risposte che portano a un cambiamento e mi aiutano a uscire da situazioni difficili. Se restassi in una poltrona comoda, starei lì e basta e non mi servirebbe a nulla. Le situazioni problematiche permettono invece di arrivare ad alternative di vita e di relazioni, complesse ma più generose, e la generosità nei rapporti è un aspetto, a mio avviso, determinante. Le risposte di fronte a situazioni difficili ci portano ad alternative di vita.

Nel racconto Dumas si parla di un uomo; ho letto che è tuo nonno. Quindi è autobiografico?
Sono riuscita a parlare di mio nonno solo perché poco prima era venuta a mancare mia nonna, altrimenti non avrei potuto, loro non andavano d’accordo! E per parlare bene di lui ho dovuto mettere la nonna in una posizione oscura e secondaria. Il finale però è fiction, ovvero come avrei voluto che finisse la sua storia. Per me è stata una figura importante, io sono stata con i nonni quando i miei erano fuggiti in Argentina.

E nel racconto Al buio?
Volevo raccontare cosa significa crescere in un ambiente di paura e pericolo costante, come quello della dittatura. Sono cresciuta in una famiglia che preparava i bambini alle emergenze: io a quattro anni conoscevo a memoria quattro numeri da chiamare in caso di necessità. La paura nell’infanzia è un mostro indefinito, non si sa bene cosa temere, ma si sa riconoscere esattamente quel sentimento. Volevo poi inserire la babysitter, ci avevo già provato in vari racconti, alla fine ho deciso che qui poteva trovare una collocazione: due oscurità unite dallo stesso terrore. Qui il confine tra autobiografia e fiction è labile, ho unito due episodi di due momenti differenti della mia vita.

La storia nei tuoi racconti è sempre un sottofondo, non si parla mai chiaramente di avvenimenti storici...
Il mio obiettivo era inserire la grande storia nella nostra piccola storia: quello che per il mondo era eccezionale, per noi era la quotidianità, siamo stati schiacciati dagli avvenimenti nel nostro vivere di ogni giorno. Non volevo scrivere come se fosse un documentario, ma ricercare le minuscole tracce che eventi di quel tipo posso lasciare in una famiglia. Del resto, ciò che succede in una casa è comunque il riflesso della realtà che si trova a vivere. I bambini che hanno vissuto quella storia sono segnati in modo indelebile, anche se nemmeno si potevano rendere conto della portata storica di quello che stava accadendo.

C’è stato un protagonista dei racconti che proprio ti è uscito dalla penna?
Sì, il protagonista di Limbo. Una voce in prima persona che mi sembrava di sentire nella testa. Forse per il fatto che ho una pessima relazione con in medici e non capisco come fanno a dirti esattamente di una tua malattia, dopo che ti hanno parlato per qualche minuto.
Ho scritto il racconto in un giorno soltanto. Non è autobiografico, ci sono solo piccole tracce, Quello che mi interessava era avere un medico in un letto di ospedale che non sapeva cosa gli stesse succedendo e potergli così dire: “Ecco adesso tocca a te”!

Vera Giaconi ed Elena Sassi
Qual è invece il racconto che ti è risultato più difficile scrivere?
Senza dubbio, l’ultimo, Rincontro. Ho taccuini pieni di scene e descrizioni che non ho usato, temevo di annoiare, di andare fuori tema. Ho impiegato circa sette mesi per scriverlo.

Cosa rappresenta per te e la scrittura? Quando hai capito che era il tuo modo per esprimerti?
Non ho ricordi di me senza scrivere, ho scritto sempre. Ricordo molto bene di quando ho iniziato. Quando mi sono trasferita in Argentina c’ero solo io e poi è nato mio fratello, a parte i miei genitori gli altri parenti erano rimasti in Uruguay. Per tenerci in contatto usavamo le lettere. Ma mio fratello era piccolo e disegnava, io scrivevo. I nonni scrivevano lettere con storie inventate e così io e lui rispondevamo inventando altrettante storie. Da lì, non ho mai smesso.

Come mai hai scelto di scrivere racconti?
Sento che il racconto è il mio genere di elezione, è stimolante più di un romanzo per me. Il lettore che legge un racconto spesso abbandona la lettura dopo 10 pagine, mentre in un romanzo porta più pazienza e spesso arriva anche alla fine, pur di non abbandonare la lettura. Nei racconti invece no, si devono collegare trame e contenuti in modo che formino una musica che possa incollare il lettore. Ecco questo fa sì che, per me, il racconto sia una forma potentissima di letteratura.

Un grazie anche alle domande che Diana D’Ambrosio con grande professionalità e passione, ha posto a Vera durante la presentazione.
A cura di Elena Sassi