#CritiCOMICS - La nostra inquietudine nelle illustrazioni di Labadessa


Bernardo Cavallino
di Labadessa
Feltrinelli, 2019

pp. 128 
€ 16


Per chi non lo conoscesse, Mattia Labadessa emerge come autore nel 2016, quando crea l’omonima pagina Facebook sulla quale riporta le disavventure del suo uomo-uccello. Il suo mondo, se escludiamo il nero delle scritte, è tricolore: corpo rosso, sfondo giallo, qualche spruzzata di bianco. A dominare sono i colori e le forme piatte, i personaggi fluttuanti nel vuoto, le didascalie irregolari scritte a mano, perlopiù brevi battute intorno agli eventi quotidiani dei giovani ma spesso anche complessi ragionamenti dal sapore esistenziale-nichilista. L’arma vincente di Labadessa in ogni caso, l’elemento che ha fatto emergere e poi esplodere il fenomeno, è stata la capacità di saper cogliere da un lato gli aspetti tragicomici della nostra epoca, e dall’altro quella di saper analizzare con una profondità singolare spesso celata dalla leggerezza dei dialoghi, le paure e i dubbi di una mente che non sa smettere di pensare (questa è, secondo me, una delle vignette più riuscite, perché credo che chiunque si sia ritrovato almeno una volta assalito durante la notte da domande semplici che poi si sono trasformate in fiumi di pensieri in grado di frantumare qualsiasi tentativo di addormentarsi).

Cosa c’è dunque nel nuovo libro di Labadessa? La prima cosa che colpisce è che, fatta salva la copertina, che richiama il giallo, il nero, il rosso, il bianco, l’illustratore abbandona qui i suoi iconici colori e il tratto preciso eppur “artigianale” per dedicarsi al bianco e nero e a un tratto più grezzo. Una scommessa, quella di allontanarsi dai binari sicuri che tanto successo hanno portato, eppure vincente: la storia, che invece richiama i più precisi echi labadessiani – una storia di incertezze, timori, ansi e dubbi –, si intarsia perfettamente in questo stile, che anzi fa dell’imprecisione del tratto il punto di forza. Nei momenti di crisi e di fervore il tratto si sfalda, da grezzo si fa rozzo, sporco, quasi fastidioso a vedersi, richiamando le forme di quei pensieri e di quelle emozioni invadenti in grado di mandare all’aria una giornata.
Qui voglio fare una considerazione di ordine artistico: le illustrazioni di Labadessa non sono bellissime nel senso estetico del termine, perché la sua forza sta nel saper provocare emozioni e nel creare legami col lettore attraverso la descrizioni di “luoghi” comuni, eppure almeno in un paio di occasioni mi sono fermato osservare con attenzione quanto avevo davanti, stupito dalla capacità evocativa di quei pochi tratti.
Riguardo a trama e personaggi, Labadessa gioca col lettore, crea una storia che non vuole altro che essere una storia: non ha pretese di oggettività o verosimiglianza, tantomeno di completezza o coerenza, vuole solo farsi leggere. Il timore della banalità è dietro l’angolo, perché facile sarebbe stato cadere nel vicolo cieco dell’amore che è in grado di salvare dalla follia, cosa che l’autore ha evitato, dando al suo lavoro una deviazione al contempo dark e metaletteraria, stratificando gli spunti di lettura e lasciando al lettore il compito di fornire un senso al tutto.
E qui forse sta il vero punto di forza di questo libro: c’è un nichilismo di fondo nelle opere di Labadessa, un senso di inquietudine fatale dovuto alla mancanza di senso delle cose, un richiamo non tanto alla filosofia delle grandi riflessioni quanto a quella delle piccole cose (calzanti a tal proposito le due vignette Ricordi arancioni e Pensieri brutti assai). Dunque come avrebbe potuto lui fornirci un libro di risposte, quando risposte non vi sono? Come avrebbe potuto darci una conclusione quando la vita è una continua ricerca di certezze, nel gioco che tutti stiamo giocando?
E allora: se non è l’amore la soluzione all’orrore che assale la notte, quale può essere? Soluzioni non ne abbiamo, si è detto, ma Labadessa nell’ultima pagina del libro avanza una proposta interessante, nella quale mi rispecchio appieno.

David Valentini