Rami troppo folti, radici troppo esili: "Il filo che ci unisce" di Robin Benway

Il filo che ci unisce
di Robin Benway
DeA, 2018

pp. 351 
€ 15,90

Titolo originale: Far From the Tree
Traduzione di Ilaria Katerinov

È il titolo dell’edizione originale quello da cui bisogna partire per comprendere appieno il romanzo di Robin Benway: perché il filo a cui rimanda la traduzione non riesce a rendere perfettamente la connessione profonda data invece dall’idea delle radici comuni, smarrite e poi ritrovate, che legano i tre protagonisti della storia. L’albero a cui si fa riferimento è un albero genealogico che tre adolescenti sono chiamati a ricostruire per trovare un proprio posto nel mondo
C’è Joaquin, per cui il nesso è esplicito: diciassette anni, diciassette famiglie affidatarie con cui qualcosa è andato storto e una, la diciottesima, quella di Mark e Linda, che vorrebbe tanto infrangere il muro di difesa che il ragazzo ha costruito intorno a sé, ma pare non riuscirci. 
L’albero genealogico di Joaquin sembrava avere rami troppo folti e non abbastanza radici, non il genere di radici che servono quando la tempesta soffia. (p. 55)
Poi c’è Maya, che è piccola e bruna in una famiglia in cui tutti sono alti, dalla pelle candida e i capelli rossi: la rassegna di foto di gruppo che campeggiano lungo il corridoio le ricordano ogni giorno la sua diversità, quel sangue differente che le scorre nelle vene, e si vede chiaramente nella successione degli scatti che “il sorriso si smorzava sempre più di anno in anno” (p. 50), insieme al sopraggiungere della consapevolezza. 
E infine c’è Grace, che incontriamo fin dalla prima pagina, mentre l’autrice descrive le sue aspettative per il ballo di inizio anno, le stesse di ogni sedicenne: i preparativi con la migliore amica, il fidanzato elegantissimo nello smoking a noleggio, le foto ricordo… solo che Grace, alla fine, al ballo non ci va: infatti “passò la serata del ballo […] con i piedi non nelle scarpe col tacco ma penzoloni dalle staffe, a partorire sua figlia” (p. 9). La bambina, che solo la madre in segreto continua a chiamare Pesca, viene data in adozione a una brava famiglia, accuratamente selezionata, secondo un iter che ha seguito la stessa Grace quando era piccola. 
Sembra quindi che la storia si ripeta, che ci sia una sorta di determinismo in grado di segnare la via e la vita di chi non ha conosciuto radici abbastanza forti. Eppure è da questa separazione iniziale, che non è un abbandono, ma la scelta sofferta di una madre giovane, eppure consapevole dei bisogni della propria figlia (“Pesca era perfetta. Grace no. E Pesca meritava la perfezione”, p. 14) che si dipanano i fili della trama. Perché Grace non riesce ad andare avanti, lacerata dal dolore e dai sensi di colpa: Grace soprattutto si sente “disancorata”, quindi priva di punti di riferimento, completamente alla deriva, nonostante la presenza rassicurante di genitori che fanno del loro meglio per supportarla. Da questo senso di sradicamento, di vuoto impossibile da riempire, che a tratti sente anche Maya (“era più facile immaginare un universo di possibilità, un mondo in cui letteralmente chiunque potesse essere suo parente. Ma così a volte il mondo sembrava troppo grande”, p. 29), nasce l’idea di una ricerca che aiuti a ritrovare dei punti fissi, delle zavorre per restare ancorati al mondo
Grace inizia quindi a seguire le tracce della propria madre biologica e si imbatte invece in qualcosa di inaspettato, ma ugualmente determinante: due fratelli di cui ignorava l’esistenza, con trascorsi ed esperienze completamente diversi dai suoi, ma il sangue finalmente in comune a legarli più di qualsiasi scelta o errore passato. In Maya e Joaquin, Grace trova uno specchio di sé e delle proprie paure, anche se variamente declinate. Le stesse fragilità, le stesse domande, le stesse insicurezze affettive. I tre ragazzi inizieranno un percorso di avvicinamento reciproco che è anche un percorso di crescita e di appartenenza (gli uni agli altri, ma anche ai contesti in cui sono inseriti). Questo legame di sangue ritrovato non ha alcun potere magico, non risolve istantaneamente alcun problema (sarebbe ingenuo e semplicistico sostenere il contrario), ma dà nuova forza ai protagonisti e permette loro di riscoprire in sé risorse che non credevano di avere, di venire a patti con verità che non volevano accettare. Consente di affrontare la caduta e rende più dolce l’atterraggio. Permette anche di ridefinire in termini più complessi e sfaccettati il concetto di famiglia, che non è esclusivo né limitante, ma può aprirsi e farsi accogliente, in nome di un amore condiviso
L’autrice accompagna a capitoli alterni i personaggi nelle rispettive vite, scegliendo però di mantenere un’unica voce narrante che di volta in volta assume il punto di vista dei singoli, ma senza dimenticare mai il quadro d’insieme, quello che porta pagina dopo pagina Grace, Maya e Joaquin a risalire i rami dell’albero, ad avvicinarsi sempre di più alle radici con cui è necessario confrontarsi. 
Vincitore nel 2017 del National Book Award nella categoria “Young People's Literature”, Il filo che ci unisce riesce a coniugare una trama ben congegnata con una accurata analisi psicologica dei protagonisti, che risultano credibili e coerenti nei pensieri e nelle azioni. E se, nei Ringraziamenti, l’autrice fa esplicitamente cenno alla lunga gestazione di questa sua opera, certamente il frutto di tanta fatica – zuccherino, ma non stucchevole – lascia il lettore appagato e commosso. 

Carolina Pernigo




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