Ciò che il film non mi ha dato: "Storia di una ladra di libri" di Markus Zusak

Storia di una ladra di libri
(The Book Thief)
di Markus Zusak
Frassinelli, 2009

Traduzione di Gian M. Giughese

pp. 564
€ 16,90



Assunti iniziali. Primo: ci sono film che funzionano bene quanto i libri a cui sono ispirati, se non addirittura meglio. Secondo: il successo della resa non dipende necessariamente dalla fedeltà all’originale.  Si tratta di quella che Roman Jakobson avrebbe definito una traduzione “intersemiotica”, ovvero un passaggio da un linguaggio a un altro, che richiede aggiustamenti e riflessioni, spesso anche l’obbligo di discostarsi in maniera importante dal modello, per renderne una certa idea di fondo, uno spirito sottile. D’altronde già ai tempi del ginnasio ci veniva ripetuto, durante la versione di latino, che la traduzione letterale a un certo punto deve cedere il passo a quella “di gusto”, in grado di rendere lo stile dell’autore, coglierne la sostanza (che io sappia, nessuno di noi ci è mai riuscito: eravamo più esecutori che artisti). Così, nei film, non sempre quello che si cerca è l’adesione perfetta e assoluta al testo di riferimento. La traduzione non implica tradimento, se si rispetta l’essenza del modello, pur modificandone magari persino la trama. Il Canone inverso di Ricky Tognazzi ha davvero poco a che vedere con l’ipotesto di Paolo Maurensig, eppure convince, commuove, rimane impresso nella mente mentre del libro si dimenticano presto i dettagli.


Quando ho guardato Storia di una ladra di libri (Brian Percival, 2013) ho avuto l’impressione che si trattasse di una storia diversa rispetto a quella narrata nel volume di Markus Zusak (The Book Thief, 2005, edito in italiano da Frassinelli prima con il titolo La bambina che salvava i libri, poi con quello attuale). Gli ingredienti erano indubbiamente gli stessi: la bambina, la famiglia adottiva, il contesto di un piccolo paese della Baviera durante la Seconda Guerra Mondiale, l’ebreo nascosto in cantina, la passione per la parola, l’amicizia con Rudy, la moglie del sindaco… al contempo però, l’effetto era differente: come se mi avessero somministrato un caffè americano a fronte della richiesta di un espresso. Dunque non una cosa “cattiva”, ma sicuramente “diversa”; in ogni caso, non soddisfacente per un palato che in quel momento nutriva un desiderio particolare di personalità e sapori forti, connotati.


Nel film si perde qualcosa (sta ai gusti dello spettatore valutare se la cosa sia positiva o negativa): si perdono i dettagli, il ritmo sincopato, ma anche l'attenzione ai colori, ai suoni, ai personaggi. Si perdono gli incubi e le notti di Liesel e Papà, la pazienza, l'importanza assunta fin da subito dalla parola condivisa (l'abbecedario già pronto non rende neanche vagamente la complessità e il carattere necessario di questo processo). Si perde la storia di Hans Hubermann, che contribuisce a definire il suo carattere e la sua relazione con Max. Si perde la tragicità passiva di Ilsa Hermann, la gradualità e l'ambiguità dei suoi rapporti con Liesel. Si perde la delicatezza silenziosa di Max, che diventa  invece ciarliero, perdendo le ombre date dai suoi traumi. Si perde lo spessore dell’amicizia di Liesel e Rudy (quello scambio vivace di battute che rimandano ad altro, la continua richiesta di un bacio - immancabilmente declinata - che nasconde in vibrazioni nascoste ma percepibili un affetto che si consolida e muta in qualcosa di più articolato e difficile da definire, fino a quando non sarà troppo tardi). E poi, diciamocelo, il “furfante” del doppiaggio italiano non rende neanche un po’ i continui Saumensch/Saukerl dell’originale, che diventano per i personaggi poco avvezzi all’esternazione dei sentimenti l’unico modo per comunicare il proprio attaccamento.

Soprattutto, però, quello che si perde è il ruolo fondamentale della narratrice, che nel libro è mediatrice fondamentale della narrazione – filtro e burattinaio – e interviene continuamente a sfalsare i piani temporali, a commentare, postillare e chiarire gli eventi. Il film tende ad una semplificazione che rende la trama più adatta alle famiglie, ma ne sacrifica le specificità stilistiche e narrative, rendendolo un lineare (anche se scorrevole, efficace) apologo morale. Nel testo di Zusak la Morte è protagonista quanto Liesel Meminger. Nonostante durante gli anni della guerra sia molto indaffarata, nonostante il suo preciso proposito di non interessarsi alle faccende degli uomini, una bambina di quattordici anni che grida disperata in mezzo alle macerie colpisce la sua attenzione. La distrae dai colori su cui cerca di concentrarsi mentre adempie a un lavoro sgradito, che svolge come un dovere, senza alcun piacere (e sicuramente senza falci o cappucci neri), con il desiderio di alleviare quando possibile le sofferenze delle anime. La ragazzina bionda, con il suo libriccino stretto al petto, la richiama prepotentemente sulla terra. Le viene in mente di averla vista in altre due occasioni. Quello che è successo tra l’uno e l’altro incontro, lo scopre attraverso un libro, un diario, raccolto dalla strada e riproposto al lettore, continuamente però rimaneggiato e interpolato. A questa Morte caritatevole, che pone domande per cui tutta l’umanità vorrebbe risposte, ma che come l’ultimo degli uomini non le riceve, il lettore – continuamente interpellato e chiamato in causa – si affeziona subito:
Quando ci ripenso rabbrividisco… perciò tento di non pensarci. Mi soffio aria tiepida sulle mani per riscaldarmele. Ma è difficile tenerle calde quando le anime tremano ancora di freddo. “Dio”. Quando ci penso pronuncio sempre quel nome. “Dio”. Lo pronuncio due volte. Pronuncio il Suo nome nel vano tentativo di comprendere. “Ma capire non è affar tuo”. Ma sono io a rispondermi. Dio non dice mai nulla. Credi di essere l’unico cui Lui non risponde? […] Quando mi metto a pensare così rimango esausta, e non posso permettermi il lusso di indulgere alla stanchezza. Sono costretta ad andare avanti perché, sebbene non sia vero per ogni persona sulla faccia della terra, è vero per la grande maggioranza, cioè che la morte non sta ad aspettare nessuno; se lo fa, di solito non aspetta molto a lungo. (p. 358)
È attraverso i suoi occhi, talvolta inteneriti, ma anche abituati a tutto, disincantati, amari, che il lettore scopre la storia di Liesel, che in mezzo alla barbarie, trova nella parola una possibilità di salvezza. Il furto dei libri, iniziato quasi per caso, nel diventare sistematico rappresenta l’unica rivolta possibile per una preadolescente al tempo del Reich. La lettura alimenta la curiosità e l’intelligenza, invita a porre questioni e a indagare laddove la maggioranza della popolazione accetta passivamente le indicazioni (e le verità) calate dall’alto del regime. Ma la parola, mormorata nella penombra del rifugio antiaereo, diventa anche strumento di consolazione, o, nella biblioteca di una donna infelice come nella cucina di una vecchia solitaria e inacidita, veicolo per la creazione di legami. I volumi che sottrae sono una finestra sul mondo, forniscono la chiave per decifrare il reale, per comprendere gli effetti devastanti che il nazismo ha anche sul popolo tedesco. E, al contempo, una volta affrontata e superata la rabbia, offrono una via di fuga, una seppur esile speranza.
Aveva visto morire suo fratello, con un occhio aperto e l’altro ancora in un sogno. Aveva detto addio a sua madre, immaginandola mentre aspettava sola soletta un treno che l'avrebbe riportata nell'oblio. [...] Un giovane penzolava da una corda fatta con la neve di Stalingrado. Aveva guardato un pilota morire in una scatola di metallo. Aveva visto camminare verso un campo di concentramento un ebreo, che per due volte le aveva donato le pagine più belle della sua vita.  E proprio al centro di tutto ciò vide il Führer, che gridava le sue parole, distribuendole tutte intorno a sé. Quelle immagini erano il mondo, che ribolliva dentro di lei mentre sedeva lì fra i bei libri e i loro titoli ben incisi sulle copertine. [...] Bastardi, pensò. Adorabili bastardi.  Non rendetemi felice. Non riempitemi, per favore, non lasciate che mi persuada che qualcosa di buono possa venire fuori da tutto ciò. Guardate i miei lividi. Guardate questo taglio. Vedete il taglio che ho nel cuore? Lo vedete allargarsi proprio sotto i vostri occhi, lo vedete consumarmi? [...] Strappò una pagina del libro e la lacerò in due. (pp. 532-533)
Ciò che il film perde, al di là della forza delle immagini che Markus Zusak riesce a creare con la sua prosa sinestetica, metaforica, ma anche incredibilmente vivida, è soprattutto il messaggio dato dalla scelta di utilizzare la Morte come narratrice: attraverso un uso impietoso della prolessi, il lettore viene informato anticipatamente di ciò che accadrà. Man mano che scorrono le pagine, non si capacita, aspetta l’inganno, la diversione, l’espediente che farà realizzare le premonizioni in modo diverso da quanto annunciato. Nulla di tutto ciò accade: la Morte sa, la Morte non mente. Le cose vanno esattamente come devono andare e tu piangi tutte le lacrime che puoi piangere e allo stesso tempo ti arriva forte e chiaro il messaggio dell’autore che, senza alcuna retorica, esclusivamente grazie all’incisività del suo narrare, sbatte in faccia a tutti la sua riflessione sulla crudeltà e l’inutilità della guerra, che non risparmia nessuno e, alla fine, lascia solo macerie. 

Carolina Pernigo


Leggi anche il Pillole d'autore che Barbara ha dedicato al romanzo.



Un post condiviso da CriticaLetteraria.org (@criticaletteraria) in data: