“Gli autunnali” e (ancora) il solito sguardo maschile


Gli autunnali 
di Luca Ricci 
La Nave di Teseo, 2018 

pp. 211 
€17,00



Gli autunnali di Luca Ricci è uno dei libri più discussi del momento. Dalla sua uscita, il 22 febbraio, è stato oggetto quasi giornalmente di recensioni, presentazioni, interviste, ed è stato recentemente segnalato da Renato Mirone all’edizione del premio Strega 2018, dove rappresenterà la casa editrice La Nave di Teseo. Abbiamo già parlato anche qui su CriticaLetteraria, in un bell’articolo di Carolina Pernigo, delle nevrosi matrimoniali protagoniste della storia, delle ossessioni per un nuovo amore e per le sue allucinazioni che conducono alla follia, dell’autunno della vita che è assenza di clorofilla nell’uomo alle prese con le crisi di mezz’età, della Roma tiepida e umida tra settembre e dicembre, un capitolo per ogni mese. Partendo da queste riflessioni già fatte, che condivido, mi sembra che si sia scritto poco, invece, su un argomento centrale del libro, e cioè sul rapporto tra il protagonista e i personaggi femminili che lo circondano. Un nodo importante, perché il libro è scritto in prima persona e lo sguardo maschile sulle donne è la lente attraverso cui filtra tutta la storia del romanzo, scritto molto bene ma che mi ha molto irritata. Perché ancora una volta il punto di vista adottato è quello del solito (anzi del peggior) maschio bianco, eterosessuale e borghese italiano, di cui il libro offre una fotografia molto vera.
Il protagonista, senza nome, è uno scrittore che non scrive più, un borghese benestante romano. Ha un’altissima considerazione di se stesso e sa di avere a disposizione diverse ammiratrici che non lo rifiuterebbero («d’altronde la mia rubrica pullulava ancora di contatti sensibili, per così dire, donne con cui avevo avuto relazioni mai chiuse che avrebbero accettato senza problemi d’incontrarmi per un caffè», p. 150). Fin dalle prime pagine il confronto tra il suo corpo, ancora piacente, e quello delle donne a lui coetanee è impietoso: 
Nonostante il giro di boa dei cinquant'anni, il fisico aveva tenuto. Anzi, rispetto alla magrezza di quand’ero uno studente, adesso mi riconoscevo una virilità accentuata, come se l’età mi avesse regalato una corporatura più massiccia. Ero un uomo capace d’incombere – e incombevo anche non volendolo, solo a camminare -, peculiarità che le donne, sempre alla ricerca di nuovi pericoli, trovavano irresistibile. Avevo ancora tutti i capelli in testa, cosa che m’inorgogliva enormemente […]. A dirla tutta, l’unico piacere dell’estate si era rivelato proprio avere la consapevolezza di stare ancora bene in costume, sapere che il disfacimento fisico era lontano, nonostante indossassi solo un paio di mutandoni elastici colorati. E Sandra? Una bella donna in costume restava prevedibilmente bella, mentre una donna brutta si trasformava in qualcosa di più, poteva diventare un freak. Tutte le donne brutte in costume diventavano scandalose, rappresentavano una specie di oltraggio al pudore che le rendeva, se non interessanti, almeno sopra le righe. Sandra invece in spiaggia scompariva, segno evidente che era ancora dignitosa. Magari non più conturbante, ma neppure costretta a indossare quei costumi interi a tinta unita contenitivi e snellenti o, appunto, in grado di catalizzare le occhiate inorridite degli uomini o gli sguardi di sufficienza misti a pietà delle altre donne... (pp. 30-31). 
Si delinea quindi da subito uno scarto crudele: il protagonista maschio è ancora capace di incombere col suo fascino, e per di più istintivamente. Le donne non resistono a tanta virilità, sono sempre alla ricerca di nuovi pericoli, delle Mesdames Bovary che non vedono l’ora di avere una nuova avventura. Ma a loro purtroppo non spetta la stessa fortuna. Se il corpo dell’uomo è sempre più attraente con l’età, quello delle donne subisce una trasformazione mostruosa agli occhi del maschio e diventa addirittura motivo di scandalo. Si salvano solo quelle belle – tra cui Sandra, la moglie del protagonista – a un prezzo terribile però, quello di scomparire. Solo scomparendo le donne possono aspirare ad essere, quantomeno, dignitose
Amedeo Modigliani e Jeanne Hébuterne
Accanto al protagonista ci sono diverse donne che interagiscono con lui nel corso della storia. C’è Sandra appunto, la moglie con cui si annoia ma che, quando lui vuole, è sempre ben disposta a concedersi («Non diceva niente, non mi contrariava mai durante l’accoppiamento, come se farlo fosse già un regalo inaspettato», p. 178). C’è l’amore-ossessione attraverso una foto feticcio per una donna del passato, Jeanne Hébuterne, la compagna di Amedeo Modigliani che per lui si sacrifica fino alla morte. E c’è l’incarnazione miracolosa di questo amore in Gemma, viva, incinta del suo compagno e commessa di una ricevitoria dove lavora tutto il giorno con le décolleté, per la gioia del protagonista che si eccita a odorarle di nascosto (p. 97). Insomma sono donne che rispondono solo e perfettamente alla loro visione stereotipata da parte di (certi) uomini, e infatti noi le conosciamo attraverso lo sguardo maschile. E non ci sarebbe nulla di male ad avere un narratore interno che ci guida nel suo mondo dalla parzialità della sua visione, se non fosse che quel narratore lo conosciamo bene, dato che lo sentiamo raccontare le sue storie da sempre e, francamente, ci ha un po’ annoiati. 
C’è poi almeno un altro uomo nella trama (ci sarebbe anche un figlio, ma è grande e vive fuori e il lettore si dimentica facilmente che il protagonista è anche padre di un adulto), e cioè Gittani, l’amico delle passeggiate per Roma, pure lui scrittore che non scrive più. Anche Gittani, che conosciamo sempre attraverso lo sguardo del protagonista, non ci offre una visione meno piena di stereotipi misogini. Tradisce con un’infermiera «sempre compiacente» (p. 66) la moglie malata, che – pure lei pronta al sacrificio – addirittura incoraggia il tradimento anche in punto di morte perché sa che al suo uomo «serve l’amore per scacciare la morte» (p. 162). Al suo amico che delira in preda all’ossessione amorosa per una foto Gittani consiglia: «Dammi retta, trovati una donna in carne e ossa e salvati la vita. Non devi solo scopartela, perché non siamo animali. Facci un viaggio insieme, fatti preparare il caffè la mattina» (p. 50). E il protagonista una donna in carne e ossa la trova davvero, ma non il dolce angelo che gli suggeriva l’amico, bensì una prostituta nigeriana che – preso dalla frustrazione per non poter avere fisicamente Gemma – sevizia e frusta ripetutamente, in quelle che sono probabilmente le pagine più terribili del romanzo. Addirittura la prostituta Kainene è anche la depositaria di uno sfogo del protagonista che, in un folle momento a metà tra masochismo e spacconeria, le sciorina tutti i suoi tradimenti alla moglie con le donne del panorama editoriale italiano (scrittrici – in corsivo nel testo – incluse), e non solo. Nessuna resiste al potere che lui esercita senza alcuno sforzo: 
Per uccidere il senso di colpa occorreva ridurre gli orizzonti di gloria, accedere a una qualche forma d'incontestabile meschinità. Godere dei propri tradimenti, per esempio, vantarsene con se stessi. Rovesciare la situazione iniziale, rendere grazie al disastro dei sentimenti. Così ero diventato un fedifrago seriale, uno stacanovista dell'adulterio, un supereroe dell'infedeltà. Ogni presentazione in giro per l'Italia era stata l'occasione giusta: notoriamente, le resistenze femminili diminuivano con l'aumentare della fama letteraria. A volte non avevo dovuto neppure aprire bocca, o fare lo sforzo di un benché minimo corteggiamento. Era diventata una cattiva abitudine, come fumare sigarette o mangiare cibi troppo grassi. Passavano gli anni e mi dicevo: «Ti stai facendo grande, la pianterai.» E invece non la piantavo, anzi se possibile intensificavo la mia attività. Mi ero scopato interi uffici stampa, editor, giornaliste, speaker radiofoniche, bibliotecarie, insegnanti e studentesse (avevo avuto un'utenza transgenerazionale), oltre a una carrettata di comuni lettrici. Perfino qualche scrittrice.
«E poi ho scopato tutte le amiche di mia moglie,» gridavo e frustavo. «Tutte, nessuna esclusa!»
Kainene si voltava appena, faceva di sì con la testa, tentava di farmi capire che stava seguendo quelle elucubrazioni.
«Se mia moglie invitava una donna a prendere il tè da noi, di pomeriggio, quella sarebbe stata la mia prossima scopata, hai capito?» (p. 128) 
Né lo stato allucinatorio in cui il protagonista vive, né la poesia che ricerca disperatamente, né il finale inaspettato che per certi punti rovescia lo stato delle cose riescono in fondo a mediare la brutalità della misoginia dello sguardo del protagonista. E viene a più riprese il sospetto che, ancora una volta, la storia non ci sia raccontata da un folle, da un allucinato in cerca di poesia e di vita per sconfiggere l’autunno e la morte, ma da un sanissimo italico maschio che, purtroppo, non fa niente di diverso da quello che fanno da sempre tanti maschi: nascondere dietro a un presunto romanticismo l’imposizione del proprio potere sulle donne, salvaguardare ed elogiare il proprio ego a scapito della vera comprensione dell’altro/a e dei suoi desideri: 
«In fondo facevo unicamente quel che un uomo sano deve fare: assecondare le proprie pulsioni, prendersi cura delle più infime sfaccettature di sé, cercare di riunire i frammenti per ottenere un’illusione d’integrità» (p. 132).
Una scena del film del 2004 I colori dell'anima
Al netto di queste considerazioni, e delle tante altre fatte in questi giorni su Gli autunnali, mi chiedo: quanto sarebbe più interessante se tanta poesia, tanto autunno, ci fossero rivelati da uno sguardo diverso?


Serena Alessi
@serealessi