Abbiamo sempre vissuto nel castello: una storia di ordinaria follia

Abbiamo sempre vissuto nel castello
di Shirley Jackson
traduzione di Monica Pareschi
Adelphi, 2009 (I edizione originale 1962, I edizione italiana 1990)

pp. 182
€ 18,00 (cartaceo)
€ 8,99 (e-book)


È primavera, sei giovane, bella, hai il diritto di essere felice. Rientra nel mondo.
C'è un filo sottile che lega la scrittrice americana Shirley Jackson all'autore horror forse più celebre al mondo, Stephen King, ed è la dedica che quest'ultimo scrisse in onore della collega in apertura del romanzo L'incendiaria, pubblicato nel 1980:
"A Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce".
Ed è esattamente questa l'atmosfera che si respira in Abbiamo sempre vissuto nel castello, pubblicato per la prima volta nel 1962 ma edito in Italia da Mondadori nel 1990 col titolo Così dolce, così innocente: uno stato di perenne tensione, una suspense che tocca picchi altissimi senza che accada mai nulla di davvero eclatante. 
La storia si svolge in un tempo imprecisato ed in un luogo indefinito, a voler forse significare che potrebbe accadere dovunque ed in qualunque momento, e viene narrata in prima persona dalla diciottenne Mary Katherine Blackwood. Veniamo, così a conoscenza della casa nella quale lei e la sorella maggiore, Constance, vivono come in una gabbia dorata in compagnia dello zio Julian, costretto su una sedia a rotelle.

Apparentemente la tranquillità della loro routine (tra cucina, giardinaggio, cure nei confronti dello zio invalido e giochi con il gatto Jonas) non porta il lettore a farsi alcuna domanda, finché quest'ultimo non viene a conoscenza del fatto che tutti gli altri Blackwood sono morti avvelenati sei anni prima.

L'equilibrio della strana famigliola pare alterarsi con la venuta del cugino Charles, che apre una finestra sul mondo esterno e porta le due sorelle a mettere in discussione la loro posizione di solitudine forzata con quella della comunità che le circonda.

La prima considerazione che possiamo fare in merito alla storia consiste nel fatto che i primi due capitoli andrebbero letti a ritroso per poter essere meglio compresi, perché all'inizio della storia leggiamo di Mary Katherine che va a fare spesa in paese e della derisione che la "povera" Merricat è costretta a subire da parte di alcuni ragazzi i quali, con tono canzonatorio, la provocano dicendole che non sarebbero mai andati a pranzo a casa sua. Il lettore, qui, è portato ad immedesimarsi con la giovane, salvo poi scoprire nel secondo capitolo che la famiglia della ragazza è morta per avvelenamento proprio durante un pranzo, e quindi la prospettiva pare improvvisamente ribaltarsi.
"Merricat, disse Constance, tè e biscotti, presto vieni". "Fossi matta, sorellina, se ci vengo m'avveleni". "Merricat, disse Connie, non è ora di dormire? In eterno, al cimitero, sottoterra giù a marcire".
Lentamente veniamo a conoscenza dell'identità del colpevole degli omicidi e dei motivi dell'insano gesto, mentre davanti ai nostri occhi scorrono scene di "ordinaria follia": non ci sono colpi di scena o scene da romanzo horror, non scorrono fiumi di sangue né vi è alcuna presenza sovrannaturale che abita la casa, piuttosto la pazzia regna sovrana ma si può vederla solo in controluce, senza che venga mai chiamata per nome, ma non c'è una sola pagina, non una sola riga nella quale non si percepisca inquietudine e angoscia.

Quel misto di repulsione e pietà che provano gli abitanti del paese nei confronti delle sorelle Blackwood ricorda moltissimo le macabre trasmissioni televisive alle quali da anni siamo costretti ad assistere: l'analisi psicologica del mostro, l'ossessione perversa nel conoscere lo svolgimento degli avvenimenti, la gogna della pubblica opinione sono quanto mai attuali, ed in questo la Jackson si dimostra una scrittrice che, per le tematiche affrontate, rientra tra i cosiddetti classici del genere gotico.

La claustrofobica ricostruzione della casa è curata fin nei minimi particolari, ed allo stesso modo la caratterizzazione psicologica dei personaggi è assai ben congegnata: le manie di Merricat di seppellire gli oggetti, la sua ossessione per un'esistenza che potrebbe scorrere tranquilla e pacifica soltanto sulla Luna dimostrano come la stessa sia "bloccata" in un perenne stato infantile, che le fa apparire il resto del mondo come un nemico dal quale proteggere sé stessa e l'amata sorella.

Abbiamo sempre vissuto nel castello è un romanzo consigliato a quanti amano i thriller psicologici, ma anche a coloro che credono che un buon horror debba necessariamente avere la sua "dose" di sangue e morti: Shirley Jackson riesce nell'impresa di rappresentare un Male folle nella sua ordinarietà, facendo percepire al lettore quanto la vera malvagità si celi dentro l'animo umano e sia perciò sempre pericolosamente pronta a riversarsi nel mondo esterno.

Ilaria Pocaforza