Le parole degli altri: la farmacologia (in)fallibile dei libri

Le parole degli altri
di Michaël Uras


Editrice Nord, 2017

Traduzione di Francesco Graziosi

pp. 346
€ 16,90



Non dovremmo mai lasciare decidere alla letteratura delle nostre vite, ma è impossibile per chi ci vive dentro. 

Yann è un adolescente molto acuto con il viso sfigurato da un terribile incidente stradale. Robert è un superficiale venditore di orologi di lusso consumato dallo stress. Anthony è il miglior calciatore francese idolatrato dalle folle. Queste persone hanno come punto in comune quello di frequentare tutti lo stesso terapista: in Francia, moltissima gente ricorre al supporto di uno psicologo. Meno frequente è il fatto che si tratti di un biblioterapeuta, un uomo che aggiusta le persone tramite i libri. Alexandre è l'unico professionista del genere nella capitale francese; i libri occupano tutta la sua vita, lavorativa e personale. Sono anzi forse troppo ingombranti visto che da poco è stato lasciato da Mélanie, la sua compagna. Forse ha anche lui bisogno di un suggerimento, di libri che lo possano rimettere in sesto. Lui, così bravo a trovare per tutti il romanzo o la raccolta di poesie adatta, si trova nella situazione di essere paziente di se stesso e si accorgerà che è molto difficile stare sia seduti sulla poltrona che sdraiati sul divanetto a parlare di sè.
«Buonasera. È lei il biblioterapeuta?»
La voce mi ricordava qualcosa, non era sconosciuta. Magari si trattava di uno scherzo. Il Biblioterapeuta, l'unico, il solo. Io rappresento nella mia persona la Biblioterapia. 
Sicuramente ci avrete fatto caso: libri e farmacologia si stanno fondendo sempre di più. Internazionale ha una rubrica tenuta da un bibliopatologo che risponde alle più svariate manie e compulsioni dei lettori.  Blogger e algoritmi lavorano per consigliare il libro giusto per il mood del momento. Se una in casa si trovava la cassetta del pronto soccorso, oggi è più frequente imbattersi in volumi che spiegano come utilizzare i libri come rimedio farmacologico. Lo splendido Curarsi con i libri di Elle Berthoud e Susan Elderkin edito da Sellerio ne è un esempio.
I romanzi ambientati in librerie come magici luoghi di cura e conforto non sono certo una novità. Le  "piccole librerie a Parigi" e "le colpe dei libri" sono titoli che vediamo ripetersi con discreta regolarità e parlano del potere salvifico della parola scritta e di chi la vende. Una volta, questo potere era affidato alle cioccolaterie, ma i tempi cambiano. Michael Uras, già conosciuto in Italia per il romanzo Io e Proust, sposta l'attenzione fuori dall'ambiente della libreria e la concentra su una figura professionale ancora poco riconosciuta: il bibliopatologo. 
Storie di questo tipo variano radicalmente in base alla madre lingua dello scrittore. Se Le parole degli altri fosse uscito dalla tastiera di un anglosassone o di un americano, avremmo avuto davanti una narrazione più diretta, chiara e umoristica. I sottesi sarebbero rimasti pochi, i punti d'ombra sarebbero stati fugati, il lieto fine sarebbe stato più netto e il bene e il male chiaramente identificati dalla maglia della squadra. Ma questa non è una storia americana, si diceva in L'Ombra del diavolo
Michaël Uras ci presenta Alex, un uomo dall'aspetto, a dire di chi lo circonda, troppo effeminato, così intriso di libri da non lasciare spazio spesso agli affetti e condizionato da una famiglia intellettuale poco propensa ai sentimenti. Ha studiato biblioterapia in Canada uscendone con una votazione mediocre e portando con sè l'abitudine di leggere seduto sui tetti e la propensione ad amare romanzi cupi. In una storia americana, Alex avrebbe preso a cuore tutti i suoi pazienti, si sarebbe affezionato. Ma in una storia francese, Alex è un terapista che evita di accanirsi se qualcuno rifiuta di continuare la terapia e che tiene in maniera incredibilmente pragmatica al saldo delle proprie fatture. 
In effetti, colui che dovevo rivedere di lì a due giorni mi era apparso nella sua vera natura. E non era certo gloriosa. Ciononostante, dovevo continuare a vederlo. Perché non si abbandona un paziente, neanche se fa discorsi riprovevoli. Mantenersi professionali. E anche per i soldi. Un motivo spregevole dal punto di vista filosofico, ma io non vivevo in una manuale di filosofia.
In una storia americana, i libri sarebbero stati un potente elemento di cura e catarsi. Vite si sarebbero rivoluzionate e sentimenti sarebbero esplosi. Nonostante la storia (e le note di copertina) ci portino a pensare ai romanzi come elementi salvifici, avanzando nella lettura scopriamo che in realtà le parole hanno molto meno potere di quanto non si creda. Yann, l'adolescente sfigurato, riassume così la sua esperienza di terapia:
Alla fine la biblioterapia lo aveva deluso. Pensava di trovare una folgorazione, una rivelazione. Aveva trovato un giovane simpatico e appassionato di letteratura. Nient'altro. O almeno era quello che lui e sua madre avevano deciso di pensare. Dentro di sé, si domandava se quel giudizio fosse valido.
In metà dei casi seguiti da Alex, la letteratura non è la cura finale. Per Robert, il venditore di orologi logorato dal troppo lavoro, il libro torna ad avere una funzione prettamente materiale e le sue pagine vengono utilizzate per tamponare una perdita d'acqua della lavatrice. Il libro (e calco sulla parola con buona pace di Pennac) riprende il suo status di oggetto. Persino Alex, paziente di se stesso dopo l'abbandono della compagna, non segue le proprie indicazioni terapeutiche e può sperare in una sorta di lieto fine solo rinunciando in parte a ciò che lo contraddistingue

«E tu potresti rinunciare?»
«Difficilmente»
«Dove metterai le mie cose?»
«Perché, vuoi tornare a vivere con me?»
«Se ci fosse un po' di spazio tra due file di libri.»
«Avrai tutto l'appartamento»
«Tra Flaubert e Maupassant?»
«Tutto l'appartamente, Mélanie.»


Il romanzo è un continuo alternarsi di punti di vista, dalla prima di Alex, alle terze dei vari pazienti. Eppure è proprio la prima di Alex a lasciare più dubbi. In un romanzo americano, ci sarebbero state alcune pagine di puntuale spiegazione in modo da fornire tutte le coordinate per la comprensione dell'intreccio. Molto qui viene lasciato nebuloso. L'aspetto troppo effeminato di Alex viene ribadito più e più volte senza una reale motivazione e senza che questo influisca più di tanto sulle sue relazioni interpersonali eppure ricorre in maniera così ossessiva da far intuire, grazie anche ad allusioni, un'infanzia ed una adolescenza difficile. La madre viene descritta come un'intellettuale nuda e cruda poco incline al sentimentalismo, ma la durezza di Alex non viene mai realmente giustificata con un trauma importante. Proprio perché questa non è una storia americana: non ci sono spiegazioni nette né soluzioni semplicistiche date dai libri, ma la stratificazione di un personaggio che, forse, esce dai canoni mentalmente preformati che avevamo prima dell'inizio del romanzo, ma che è notevolmente realistico.
Non si tratta di una favola moderna: non ha niente del favolistico e del delizioso che mi aspettavo di trovare. Ma è sicuramente una storia moderna dove il "curare con i libri" esce dalla nebbia del magico e diventa, a tutti gli effetti, un lavoro con i suoi limiti e i suoi problemi; togliendo così la fascetta lucente che abbiamo applicato ai libri negli ultimi anni e restituendoli ad un piano più materiale.

Giulia Pretta