#paginedigrazia - Quello che resta: "Cenere" di Grazia Deledda



Cenere
di Grazia Deledda
Ilisso, 2005

a cura di Paola Pittalis

pp. 264
€ 11,00 (versione ebook € 4.90)

In Cenere un delitto viene perpetrato: è quello contro la purezza e l'innocenza, contro l'infanzia bruciata anzitempo, contro le speranze alimentate e duramente infrante. La prima vittima è Olì, "ragazza quindicenne, alta e bella, con due grandi occhi felini, glauchi e un po' obliqui, e la bocca voluttuosa il cui labbro inferiore, spaccato nel mezzo, pareva composto da due ciliege" (31). Anania, uomo debole ed egoista, si approfitta della sua ingenuità e la abbandona incinta e sola, costretta a crescere un figlio che è prima di tutto figlio del peccato. Olì perde dunque ogni prospettiva, consuma la sua giovinezza in lunghi pianti e notti insonni, non riesce ad amare davvero la prova vivente del suo peccato. Il bambino che nasce dalla relazione clandestina, a cui la madre impone il nome del padre, è malato d'inquietudine, assetato di giustizia, moralmente integro.
Costretto continuamente ad adattarsi a circostanze determinate dall'agire e dalle scelte altrui, affidato a un padre che riesce a mostrare affetto solo nel buio della notte, il bambino cova nel segreto ambizioni e desideri di fuga e di rivalsa:
Strani sogni di fughe, di avventure, di avvenimenti straordinari si confondevano, nella piccola anima, con l'istintiva nostalgia per il luogo natio, per le persone e le cose perdute; col desiderio della libertà selvaggia fino allora goduta, ed infine col sentimento arcano di pietà e di vergogna, col pensiero costante, col segreto anelito per la madre lontana. (66)
La speranza di ritrovare la madre assente, in particolare, si configura a un tempo come predestinazione e condanna: il giovane Anania lo elegge a propria ineluttabile missione. L'abbandono è un peso che grava sull'anima e impedisce di godersi appieno le opportunità offerte da una nuova vita, la volontà di ritrovare la donna perduta e di salvarla da un destino infelice è il sogno romantico ed epico in cui crogiolarsi durante l'adolescenza. Neppure l'amore per la bella e nobile Margherita basta a riportare il ragazzo con i piedi per terra, alla tranquilla e consueta abitudine dei sobborghi nuoresi: fin dall'infanzia, egli è proiettato verso il Continente e al Continente lo trascina una forza che lo trascende e che Anania non prova neppure a controllare. Due polarità opposte attraggono dunque il protagonista: la fanciulla amata, che per Anania rappresenta la "vita stessa, [...] il passato, la patria, la razza, il sogno" (170), e le radici, torbide e lontane, eppure sempre presenti, quelle che lo fanno sentire "vile, [...] viscido e nero; [...] carne della carne venduta di sua madre, anch'egli delinquente, misero, abbietto" (171).

Cenere è tante cose diverse. Innanzitutto un romanzo di formazione, di allontanamento, di crescita, come dimostra la somiglianza, precisa e certamente non casuale, del congedo di Anania dalla terra natia con l'"Addio ai monti" di Lucia Mondella: 
Addio, addio, orti guardanti la valle; addio scroscio lontano del torrente che annunzia il tornar dell’inverno; addio canto del cuculo che annunzia il tornar della primavera; addio grigio e selvaggio Orthobene dagli elci disegnati sulle nuvole come capelli ribelli d’un gigante dormiente; addio rosee e cerule montagne lontane; addio focolare tranquillo e ospitale, cameretta odorosa di miele, di frutta e di sogni! (113) 
Ma Cenere è anche una grande saga familiare, una riflessione sui legami e sul sangue che unisce e divide. E se il personaggio principale all’interno della trama pare essere Anania, è Olì, ingombrante presenza-assenza, a rubargli continuamente la scena: Olì, la madre che ha fatto quel che ha potuto, ma non ha potuto abbastanza; la ragazza dagli occhi appassionati e le labbra voluttuose diventata fantasma persecutore delle coscienze di chi rimane indietro quando lei se ne va; Olì, il cui destino è quello di scontare sempre la prepotenza degli uomini, di diventare ricettacolo dell'altrui egoismo. Perché, in fondo, egoista è anche il figlio, che preferisce sacrificare tutto alla propria presunta missione, a un dovere che diventa idolatria, in primis di se stesso e della propria nobiltà d'animo: “tu vuoi sacrificarti per il mondo; tu vuoi rovinarti e rovinare chi ti ama, solo per la vanità di sentirti dire: hai fatto il tuo dovere!” (239), rinfaccia – ma giustamente – Margherita al fidanzato. 

Cenere è ciò che resta dopo che tutto è bruciato, sono i brandelli dell'anima sopravvissuta al dirompere delle passioni, i legami familiari consumati fino alla dissoluzione, la vita stessa messa di fronte alla propria caducità. Ma cenere è anche il covo in cui si annida una nuova scintilla, il luogo da cui si può risorgere più forti di prima. Così l'egoismo trionfa, e trionfando diventa forza per rialzarsi, per superare i propri limiti, per comprendere il valore della propria umanità, carica di difetti, di vuoti ad essere, eppure ostinatamente renitente a lasciarsi schiacciare o rinnegare. 
Carolina Pernigo