"Derive": l'immigrazione clandestina viene magistralmente messa in scena nel libro di Manoukian

Derive
di Pascal Manoukian
66thand2nd, 2016

traduzione di Francesca Bononi

pp. 241
€ 16 (cartaceo)


Non sempre, nonostante le migliori intenzioni dell'autore, l'incontro tra impegno sociale e narrativa ha esiti meritevoli, soprattutto quando la tematica eletta è quella scottante e quanto mai d'attualità dell'immigrazione. I pericoli sottesi alla trattazione dell'argomento sono molteplici, non ultimo quello di cadere in uno scontato pietismo. Non è il caso di Derive, firmato da Pascal Manoukian, reporter con trascorsi come corrispondente in molte zone di guerra, che mostra di padroneggiare sapientemente la materia di cui tratta e la cui penna appare lo strumento di un autore maturo, dotato di una ben collaudata cifra stilistica. Egli può infatti fregiarsi di un linguaggio asciutto, conciso, in grado di muovere il lettore dal riso alla commozione grazie ad abili variazioni di registro, rendendolo permeabile al susseguirsi degli eventi all'interno della storia narrata. E le storie che qui si snodano  sono tre: quella di Virgil, moldavo fuggito dalla propria terra messa in ginocchio dagli anni di comunismo; la parabola di Assan, che abbandona una Mogadiscio preda degli orrori della guerra civile insieme alla sua unica figlia superstite, Iman; le vicissitudini di Chancal che abbandona Dacca, capitale del Bangladesh, in cerca di un futuro in cui la vita non sia solo sfruttamento nelle fabbriche delle grandi firme e dove le cose e le persone possano permanere un po' più a lungo, senza essere cancellate dalla furia dell'acqua e dei cicloni.

Approderanno tutti e tre a Villeneuve-le-Roi, periferia di quella Parigi che è la Francia a cui hanno accesso i “regolari”, luogo marginale per eccellenza la cui geografia eloquente si esprime attraverso i non-luoghi nei quali, al riparo da occhi indiscreti, si svolgono le vite dei migranti. Si tratta di uno spazio definito dai percorsi non lineari dei clandestini che lo abitano: non ci sono toponimi a indicare lo squat in cui alloggiano gli sfrondatori, dediti alla meticolosa cura delle rose destinate alle coppie innamorate che popolano i cafè e i ristoranti della metropoli francese; nessuno sa con certezza dove si trovi l'accampamento in cui i clandestini diventano, una volta di più, un lucroso affare per la delinquenza locale, dove è possibile affittare a chi non ha un tetto sotto il quale dormire un angolo di baracca o una roulotte rubata; solo gli addetti ai lavori sono a conoscenza degli anonimi parcheggi in cui i migranti vengono caricati, come nuovi schiavi, per poi essere trasportati in cantieri in cui lavoreranno abusivamente. Il buco che Virgil si scava in mezzo alla foresta  e che diviene il suo provvidenziale riparo è ben mimetizzato tra alberi e rovi, solo caprioli e pernici conoscono l'impervio sentiero che egli ha tracciato fra la vegetazione:
“Gli ci era voluto del tempo per trovare un po' di caos in quella foresta che sembrava disegnata per i re. Il suo nascondiglio l'aveva scovato seguendo un capriolo. Gli animali e i clandestini hanno più o meno gli stessi bisogni: vivere nascosti in mezzo ad altri esseri viventi, vicino a una fonte d'acqua e a una doppia via di fuga.”
Anche la definizione del tempo è affidata, nell'opera di Manoukin, alla percezione che ne hanno i protagonisti del romanzo: un tempo elastico e destinato a dilatarsi quando, come nel caso di Virgil, si è costretti ad attraversare il confine stipati per molte ore sotto il pianale di un camion, senza poter fiatare o muovere un muscolo nemmeno quando si ha la sensazione di essere sul punto di soffocare. Il tempo del viaggio è infatti differente per ogni clandestino, l'unica cosa che accomuna la strada di tutti è l'incertezza: incertezza di giungere fino alla fine del viaggio vivi e abbastanza in salute da essere in grado di lavorare. Ogni migrante sa che, quando si metterà in cammino, non avrà più diritto alla propria dignità di essere umano ma diverrà merce inerte nelle mani di passeur e trafficanti, sa che quel poco di anima, di volontà scampata agli orrori della patria potrebbe non sopravvivere a quelli della traversata.
L'odissea che porterà Assan e sua figlia, vestita da ragazzo, lontano dall'apocalittica Mogadiscio del 1991 viene scandita dall'apprendimento del francese attraverso un dizionario bilingue: è una pagina toccante e di delicata bellezza quella in cui Manoukian dipinge lo smarrimento umano di fronte all'inadeguatezza della parola, incapace di esprimere esaurientemente il senso di annichilimento e terrore, il progressivo annientamento di ogni risorsa fisica ed emotiva, la perdita di tutto ciò che sia di troppo rispetto al semplice istinto di sopravvivenza .
Ma il tempo del racconto è anche quello delle massacranti ore di lavoro in condizioni disumane, al riparo dagli occhi di una Francia che recita ossessivamente la cantilena del proprio statuto dei lavoratori, quello delle attese colme del terrore di essere fermati e rispediti in patria, vanificando un viaggio oneroso sotto ogni punto di vista.

La caratterizzazione psicologica di Virgil, Assan e Chancal, nonché delle altre figure che incontreranno sulla loro strada, è tutta improntata sulle scelte che essi compiono a seconda delle contingenze ed è questo tipo di movimento che li porta, man mano che il romanzo va avanti, a stagliarsi nitidamente sullo sfondo di un mondo ingarbugliato e avvilente, dove vince chi abbandona qualsiasi scrupolo morale: la loro storia merita di essere narrata perché la metamorfosi, che chi li circonda vorrebbe per loro, nelle bestie da soma pronte a compiere qualsiasi abuso pur di sopravvivere, non si compie. Pur rinnegando molte delle certezze che custodivano prima di partire, essi scelgono di restare fedeli alla propria integrità.
La loro incompiuta trasformazione richiama, per contrasto, quella in larga parte già in atto nella società attuale e che vuole quest'ultima tradotta in un insieme di individui incapaci di empatia o compassione, in grado di annullare la propria coscienza storica, marionette nelle mani di chi vuole che riconosciamo nel prossimo il ladro di quelle entità intangibili che sono i nostri diritti.

In questo senso, Derive è qualcosa di più di un romanzo godibile e ben scritto: è l'offerta di una prospettiva meno miope su un fenomeno di cui troppo spesso si parla senza cognizione di causa e che, sfruttando i toni di un certo allarmismo populista sempre consono a diffondere insicurezza, viene facilmente strumentalizzato ai fini di una poco felice propaganda politica. Nel guidarci sapientemente nel mondo della clandestinità, Manoukian non cede mai alla tentazione moralizzatrice, preferisce farsi da parte e limitarsi a prestare un cuore e uno sguardo ai suoi personaggi. E in un periodo in cui precarietà e disoccupazione ci rendono tutti un po' “irregolari”, forse l'immersione nel microcosmo proposto dal'autore  può tornare utile a sollevare nel lettore il dubbio che, nella corsa per la (ri)conquista di migliori diritti, specchiarsi nell'Altro, qualunque sia la sua provenienza e lo stato del suo permesso di soggiorno, possa rivelarsi una risorsa e non per forza un inciampo.