Pillole d'Autore: "Odio sentirmi una vittima" - Intervista di Jonathan Cott a Susan Sontag

"La sola metafora che resta, la sola che sia possibile concepire per la vita della mente" ha scritto Hannah Arendt "è la sensazione della vitalità. Privo del soffio vitale, il corpo umano è un cadavere; priva del pensiero, la mente dell'uomo è morta."

Il libro che sto per raccontare è un'esplosione di vitalità. Un inno alla vita, soprattutto a quella del pensiero. Susan Sontag si sentiva viva solo quando usava la sua mente, e questo ha fatto per tutta la sua vita di romanziera, saggista, drammaturga, regista, attivista politica. Lo ha fatto quando ha scritto della natura della malattia, trovando così il senso della possibilità della morte (Illness as Metaphor, 1978), quando ha raccontato la fotografia come uno dei fenomeni più in grado di esprimere la tensione alla (com)partecipazione del nostro tempo (On Photography, 1977), quando per scrivere di guerra con la massima onestà intellettuale è partita per Hanoi e ha vissuto sotto le bombe (Trip to Hanoi, 1969).
Odio sentirmi una vittima è un libro-intervista a cura del giornalista Jonathan Cott, una lunga testimonianza di come funzionasse davvero quella formidabile macchina che era il pensiero di Susan Sontag, la più appassionata e lungimirante tra gli intellettuali del Novecento americano, per me insieme a Gore Vidal. Il binomio vita-scrittura acquista un senso tutto nuovo nelle parole della Sontag in un dialogo che tocca i temi della marginalità sociale, delle categorie di maschio e femmina e di giovane e vecchio, del rapporto tra indipendenza e scrittura, dell'impegno politico, della cultura intellettualistica novecentesca e della sua capacità di riflettere il reale. 
In ogni parte di questo libro resta fisso, centrale come faro di significato, il connubio tra pensiero ed eros. La voglia di conoscere "assomiglia al desiderio carnale e spesso lo imita, lo duplica", scriveva Sontag a proposito di Henry James, ma anche di se stessa. La vita della mente è stata per lei "avidità, appetito, desiderio, voluttà, insaziabilità, estasi, inclinazione."
Vivere in questo costante desiderio è l'unico modo di vivere. Non c'è stato un altro modo per lei che si è sempre battuta per superare la distinzione tra pensiero e sentimento ("Ho l'impressione che pensare sia una forma di sentimento e sentire una forma di pensiero.")

È da questa prospettiva che Sontag legge e scrive il dolore, la malattia, la sessualità, sempre animata dalla voglia di essere nel mondo. Perché è questo che uno scrittore fa: essere pienamente nella propria vita, nella realtà ("Quel che mi interessa è il mondo. Tutta la mia opera è basata sull'idea che il mondo esiste realmente, e che io ne sono parte.")
Al contrario di altri intellettuali, Susan Sontag non si è mai chiusa nei recinti di un discorso solipsistico, la sua grandezza è stata fare della propria mente attiva una lente per prestare massima attenzione al mondo ("Voglio sfuggire al solipsismo, la grande tentazione della sensibilità moderna: l'idea che tutto stia nella propria mente").
Ciò l'ha resa interprete di fenomeni che altri a malapena hanno intravisto o che molti hanno visto senza cogliere. Non ha mai mantenuto la distanza di sicurezza dai fatti del suo tempo, non si è lasciata spaventare dalla ricerca e dall'esposizione. Le uniche cosa che l'hanno realmente spaventata sono state la passività e la dipendenza. 

Pur nel travaglio di una tensione artistica e intellettuale che spesso l'ha privata delle sue forze perché totalizzante, ha scritto i suoi libri con uno spirito che somiglia a quello dei grandi del rock, lo stesso rock and roll che le ha letteralmente cambiato la vita. E noi oggi leggiamo i suoi libri come rapiti da un rock and roll trascinante, quasi una rivelazione. Anzi di più: un'epifania della coscienza.
Perché è anche alla moralità che lei ci spinge, nel "tentativo di diventare una persona diversa, migliore, più nobile, più morale - nel senso che tutto ciò che si desidera e si rispetta acquista una dimensione morale, quando assume le caratteristiche di un'arte, di un imperativo, di uno scopo o di un ideale."

Susan Sontag ha cambiato città, stili di vita, orientamento sessuale senza mai essere infedele a se stessa. Di quella che molti avrebbero definito solo "irrequietezza" ha fatto una continua ricerca di valori e significati, materiale per una produzione artistica vissuta come un costante laboratorio di analisi.
Odio sentirmi una vittima è una sua frase, una dichiarazione di indipendenza, come donna e come intellettuale, nonché è il titolo perfetto per un'intervista, proprio a lei che amava così tanto le interviste e la conversazione perché le impedivano di "diventare una reclusa". E ancora una volta il lettore entra dentro quel formidabile ingranaggio che era il suo pensiero: demistificatore, altruista, sfidante, interpretativo, responsabile. Mai semplificativo.

Edizione di riferimento: Susan Sontag con Jonathan Cott, Odio sentirmi una vittima (traduzione di Paolo Dilonardo), Il Saggiatore, Milano, 2016.

La malattia
È sicuramente vero che l'ammalarmi mi ha spinta a riflettere sulla malattia. Tutto ciò che mi accade mi induce a riflettere. Riflettere è una delle cose che faccio. Se fossi stata l'unica superstite di un incidente aereo, probabilmente mi sarei interessata alla storia dell'aviazione [...] Non avevo mai prestato serie attenzione alla questione della malattia. E quando non si riflette, si tende a diventare veicoli di luoghi comuni, per quanto illuminati possano essere.
Malattia come metafora e il saggio sulla guerra del Vietnam forse rappresentano gli unici due casi nella mia vita in cui sapevo che ciò che stavo scrivendo era non solo vero, ma anche realmente utile e proficuo, e in modo estremamente pratico e immediato.

Le categorie stereotipiche
Credo che la polarizzazione giovane/vecchio e quella maschio/femmina costituiscano i due maggiori stereotipi in cui siamo imprigionati. I valori associati alla giovinezza e alla mascolinità rappresentano la norma umana, mentre tutto il resto è giudicato, a dir poco, inferiore [...] Ciò che pensiamo si possa fare da giovani o da vecchi è altrettanto arbitrario e infondato di quanto si crede di poter fare se si è una donna o un uomo. La gente non fa che ripetere: "Oh, non posso farlo. Ho sessant'anni. Sono troppo vecchio". Oppure "Oh, non posso farlo. Ho vent'anni. Sono troppo giovane". Perché? Chi l'ha detto? Nella vita è bene lasciare aperto il maggior numero di opzioni possibile.

La vita come responsabilità e autonomia
Io voglio sentirmi responsabile quanto più possibile. Come ho già detto, odio sentirmi una vittima, è una sensazione che non solo non mi dà alcun piacere, ma mi procura anche molto disagio. Finché è possibile, e finché non diviene una follia, voglio ampliare al massimo il mio senso di autonomia e perciò, nelle relazioni d'amore o d'amicizia, sono pronta ad assumermi le mie responsabilità tanto per le cose positive quanto per quelle negative. 

La marginalità
Chi l'ha detto che c'è qualcosa di sbagliato nell'emarginarsi? Io credo che il mondo dovrebbe proteggere le persone marginali. Per una società giusta è di primaria importanza permettere la marginalità [...] Sono del tutto a favore dei devianti. Sono anche consapevole, ovviamente, che non possiamo tutti optare per la marginalità - la maggior parte di noi deve scegliere una forma centrale di esistenza. Ma perché, invece di diventare sempre più  burocratizzati, standardizzati, oppressivi e autoritari, non permettiamo a un numero sempre maggiore di individui di essere liberi?

La lettura
La lettura è per me divertimento, distrazione, consolazione; è il mio piccolo suicidio. Se non sopporto più il mondo, mi raggomitolo con un libro, ed è come se mi imbarcassi su una piccola navicella spaziale che mi porta lontano da tutto [...] credo davvero nella storia, cosa in cui la gente non crede più. Sono convinta che ciò che facciamo e pensiamo sia una creazione storica.

Gli scrittori che ammiro sono quelli che si sforzano di descrivere qualcosa di irrefutabile. E ritrovo tale qualità in Beckett, Kafka, Calvino e Borges, nonché in un meraviglioso scrittore ungherese che si chiama György Konrád. 

La fotografia
Mi piacciono le fotografie. Non fotografo, ma guardo le fotografie, le amo, le colleziono, ne sono affascinata... È un vecchio interesse che mi appassiona molto. Ho deciso di occuparmi della fotografia perché ho capito che questa attività centrale rifletteva tutte le complessità, le contraddizioni e gli equivoci della nostra società. Dunque è di questi equivoci, contraddizioni, o complessità che il libro tratta, del nostro modo di pensare [...] Sulla fotografia è lo studio di un caso, si interroga su quel che significa vivere nel XX secolo in una società industriale e consumistica avanzata. 

La scrittura e il genere
Non credo che esista una scrittura femminile o maschile. Se le donne sono state condizionate a pensare che dovrebbero scrivere a partire dai propri sentimenti, che l'intelletto è maschile, che il pensiero è un'attività brutale e aggressiva, ovviamente scriveranno un tipo diverso di poesia o di prosa. Ma non vedo perché una donna non possa scrivere tutto ciò che pensa un uomo, e viceversa. 
Un certo gruppo di scrittrici femministe, o di gente interessata a tali questioni, considererebbe una persona come Hannah Arendt un'intellettuale che si identifica con il maschile. Il caso vuole che sia una donna, che ha scelto di giocare una partita tipicamente maschile, cominciata con Platone e Aristotele, e continuata con Machiavelli, Hobbes e John Stuart Mill [...] Non si è mai chiesta "Non dovrei, in quanto donna, avere un approccio diverso a tali questioni?". Non lo ha fatto, e non credo che avrebbe dovuto. Se decido di giocare a scacchi, non credo di dover giocare in modo diverso perché sono una donna.

Il femminismo

Il tentativo di stabilire una cultura separata è un modo per non cercare il potere, mentre io sono convinta che le donne debbano cercarlo. Come ho affermato in passato, non credo che l'emancipazione delle donne comporti solo la parità dei diritti. Comporta la parità dei poteri, e come la si potrà ottenere se non si partecipa alle strutture già esistenti? [...] Sono convinta della necessità di desegregare tutto. Il mio femminismo è antisegregazionista [...] Mi piacerebbe che gli uomini fossero un po' più femminili, e le donne un po' più maschili. Ai miei occhi, un mondo del genere sarebbe molto più attraente. 

Il Vietnam
Non mi piace l'idea liberal della "famiglia dell'uomo" che ci vuole tutti uguali. Credo che esistano davvero delle differenze culturali, a cui è importante essere sensibili. Perciò ho smesso di desiderare che i vietnamiti mi venissero incontro, concedendomi qualcosa che potessi riconoscere come atto di generosità nei miei confronti, perché il loro modo di esprimere la generosità era diverso dal mio [...] Il mondo è complesso e non può ridursi come noi vorremmo che fosse. 

Il vero cambiamento per me è stato il saggio sul Vietnam, perché per la prima volta in assoluto ho scritto di me stessa, anche se con grande timidezza, vivendolo come un enorme sacrificio. Ho pensato "Odio veramente questa guerra, e sono disposta a farlo per offrire il mio piccolo contributo." Ma l'ho fatto come un sacrificio consapevole. Ho pensato: "Non voglio scrivere di me, voglio soltanto scrivere di loro." Ma quando ho capito che il modo migliore per parlare di loro era includere me stessa, ho accettato il sacrificio. E mi ha trasformata. 

L'amore
Chiediamo tutto all'amore. Gli chiediamo di essere anarchico. Gli chiediamo di essere il collante che tiene insieme la famiglia, che regola la società, che assicura i processi di trasmissione da una generazione all'altra. Ma io credo che la connessione tra amore e sesso sia molto misteriosa. L'ideologia moderna dell'amore presume, tra le altre cose, che amore e sesso siano sempre connessi. Suppongo che ciò sia possibile, ma se accade, secondo me, accade a detrimento dell'uno o dell'altro. E forse il più grande problema degli esseri umani è che non sono affatto connessi!

Il cambiamento
Cambiare mi sembra così naturale. Ho l'impressione di cambiare continuamente, anche se mi riesce difficile spiegarlo agli altri, poiché in genere si ritiene che gli scrittori siano interessati a esprimere se stessi, o che si adoperino per convincere o modificare gli altri attraverso le proprie opinioni [...]
Mi sembra di essere sempre nel mezzo di un cammino, ma più prossima all'inizio che alla fine. Ho sempre avuto l'impressione che il mio sia più un lavoro di apprendistato, e che quando sarò riuscita a portarlo a termine potrò davvero fare qualcosa di buono.

Il compito di uno scrittore 
Ho detto che compito dello scrittore è prestare attenzione al mondo, ma penso che compito dello scrittore, così come lo concepisco per me stessa, sia anche assumere una posizione antagonistica e combattiva rispetto a ogni sorta di falsità [...]
Penso che ci dovrebbero sempre essere individui indipendenti che si sforzino, per quanto ciò possa sembrare donchisciottesco, di far cadere un paio di teste, di distruggere allucinazioni, falsità e demagogie, di restituire complessità al mondo, contrastando l'inevitabile tendenza alla semplificazione.


A cura di Claudia Consoli