La ballata dell'epica quotidiana: Benedizione di Kent Haruf

Benedizione
di Kent Haruf
Traduzione a cura di Fabio Cremonesi
NN Editore, 2015

pp. 273
17 

Won't you tell your dad get off my back?

Tell him what we said 'bout Paint It Black

   Rock and roll is here to stay
Come inside where it's okay
And I'll shake you, ooh ooh
(Thirteen, Big Star)


Qualche giorno fa è morto il gatto di mia nonna. Gigio, questo il suo nome, aveva ormai 20 anni e aveva "sopportato", nell'ordine, la coesistenza con ben tre gatti, un paio di traslochi, un piccolo (quanto squassante) terremoto ed anche una, poco simpatica, sortita di alcuni ladri. Nonostante fosse ormai molto anziano e malato da tempo, mia nonna era molto legata a lui e la mattina nella quale l'ha visto ormai privo di vita (si era ritirato "nel suo angolo preferito", quello del divano del salotto, in fondo a destra, di fianco ad una pianta di ficus) dicevo mia nonna, a quasi 76 anni, è scoppiata a piangere. Per un giorno intero ha pianto, lacrime che, lo dico sinceramente, anche io a fatica sono riuscito a trattenere. Ma perché vi parlo del gatto di mia nonna, della piccola e triste fine di quel simpatico felino grigio "tortora", per introdurvi uno dei più importanti romanzi della stagione,  ovvero Benedizione di Kent Haruf (primo capitolo della "Trilogia della Pianura"), edito in maniera impeccabile da Enne Enne Editore e tradotto magistralmente da Fabio Cremonesi? Perché Benedizione parla proprio di questo: della piccola/grande vita di tutti noi. Non si tratta di realismo magico, ma di realismo epico.

Haruf riesce a tessere infatti, in una trama abbastanza ricca di personaggi, un racconto pienamente omogeneo e conchiuso che, alla stregua dei romanzi a volte, troppo frettolosamente,  definiti come "classici", non si arrabatta in inutili e sterili sperimentalismi, ma rimane con i piedi ben piantati sulla secca terra d'America, tiene lo sguardo fisso sull'orizzonte infinito dei destini incrociati dei protagonisti delle vicende e trattiene, qualche volta, il fiato per le traversie del destino. Che infatti questo libro rechi con sé un qualcosa di, mi permetto di usare un avverbio un po' stornante, tremendamente intimo, è una sensazione che si avverte sin dalle prime, primissime pagine e poi letteralmente deflagra nel finale, il quale dai toni "piani" dell'inizio quasi si eleva (senza un cambio di tono o di registro, ma grazie ad un diverso peso specifico/gravità delle parole) quasi a livelli tipici dell'epica.

Tutto ruota attorno ad un universo piccolo, la cittadina di Holt, centro agricolo del Colorado dove assistiamo all'ultima, calda, estate di Dad Lewis che, ormai malato in maniera irreversibile, affronta i suoi "giorni finali" in compagnia della moglie Mary e della figlia Lorraine, tornata appositamente da Denver. Da qui, da questo nucleo famigliare apparentemente perfetto e normale, si dipanano poi tutta una serie di storie e microstorie che, irradiandosi quasi dal viso rugoso di Dad, finiscono per avviluppare tutta quanta la cittadinanza di Holt, financo l'idea stessa di società america di provincia. Infatti, seguendo la lezione di Nabokov, Haruf perfettamente conscio che è partendo dalle famiglie (cioè dal "nucleo primario" a livello sociale) che si possono raccontare le società, inizia dalla famiglia Lewis e poi si allarga, raccontando di una bambina orfana che vive con la nonna nella casa a fianco, poi dell'arrivo del nuovo reverendo in città, l'anticonformista Lyle e via di seguito.

Si finisce così a scoprire che quell'apparente perfezione e normalità della famiglia di Dad (e della cittadina di Holt in generale) è soltanto una sorta di scenografia di cartone: dietro, nelle quinte della propria "vita domestica", si annidano spettri e fantasmi che non lasciano mai dormire sonni tranquilli. Un figlio scappato di casa perché "troppo diverso" (o forse "troppo simile") al padre, una moglie infedele e non in grado di accudire una famiglia, una bambina persa per un banale quanto terrificante incidente, un dipendente licenziato a causa di un furto e poi suicidatosi perché mai in grado di fare i conti con la propria colpa... Questo è la ballata che compone Kent Haruf, sempre con quella grazia, quella normalità dei vocaboli che fanno di Benedizione un libro alla portata di tutti.

Questa pienezza dei vocaboli è, l'avevamo già ricordato in precedenza, perfettamente resa dalla traduzione di Cremonesi, abile a selezionare le parole giuste per donare quella "normalità dei toni" che fanno allontanano Haurf dalle vertigini di certa letteratura americana, anche grande letteratura americana, a lui coeva e lo avvicinano più al di dentro dell'anima delle cose

Nei capitoli finali, quando la parabola terrena di Dad sta per volgere al termine, il libro pare come librarsi in volo. Questa spinta verso l'alto inizia quasi in sordina, non ce se ne accorge ma poi, piano piano, diviene sempre più evidente. La cura, anzi la grazia (nel senso latino di gratia, benevolenza, concordia, amore) con la quale viene trattato il delicato argomento di un trapasso di un caro è squillante in queste pagine. Dad non è un uomo perfetto, forse non il marito ideale, certamente non il padre che tutte le figlie (e i figli) avrebbero voluto. Eppure egli ha vissuto, come tanti, tutti noi, certo in maniera imperfetta ma ha vissuto intensamente gli anni che gli sono stati concessi. Per questo la moglie, la dolce Mary, che non si dà mai pace per il fatto di non essere più riuscita a ritrovare suo figlio scappato di casa, si stende a fianco del marito nel grande letto (ma la parola talamo non ci starebbe male qui) nuziale durante gli ultimi istanti su questa terra del suo compagno...

Ed ecco che il tono ora è epico, perché ogni verbo, soggetto, aggettivo o vocabolo in genere risuona in maniera luminosa attraverso la prosa di Haruf e la sensazione è di essere davanti, anzi di assistere in prima persona, a sì una vicenda "piccola ed intima" ma anche ad una scena "grandiosa ed universale", come se da quel micro-episodio si potesse discernere quasi il senso stesso, ed ultimo, dell'intera esistenza di un essere umano. 
Lorraine andò in camera sua, Mary sollevò la coperta e si infilò nel letto accanto a Dad. Lui era sdraiato sulla schiena. Lei gli diede un colpetto sulla mano sotto la coperta e si sollevò per baciarlo. Sono qui. Non vado da nessuna parte, gli sussurrò. Tu fai ciò che devi fare. (...) Lo baciò di nuovo sulle labbra screpolate e si sdraiò sul suo fianco e rimase in silenzio, fissando nel buio dove la luce del granaio formava sagome scure e ombre e strane figure, e all'improvviso scoppiò a piangere.
Siamo assieme a Mary ad assistere alla fine del suo compagno di una vita. Non è un'agonia ma un sempre maggiore abbandono, dalla vita alla morte. Si noti come viene trattata questa dipartita, con quale grazia, delicatezza e perfezione stilistica si affronta un argomento tanto spinoso. Quasi sessant'anni prima Mary e Dad si conobbero, come in un film. Uno scontro fortuito, una rapida occhiata e un invito all'emporio, al Brown's Drugstore, quando ancora "in fondo al negozio c'erano dei tavolini rotondi dove ci si poteva sedere". Così nascono le storie d'amore, le nuove vite e così le "vecchie" vite finiscono.

In Benedizione di Kent Haruf non ci sono eroi o figure titaniche ma solo "scapoli giovani e secchi", ovvero proprio come eravamo tutti noi. Ecco perché era giusto iniziare parlando della dolce morte avvenuta nel sonno di un gatto molto anziano, delle lacrime salate ed autentiche di una nonna e delle emozioni inaspettate di un nipote nei confronti di un libro di carta.

Benvenuti al realismo epico della prateria senza fine della vita.