Il pieno e il vuoto della poesia: Varianze di Maurizio Giudice

Varianze
di Maurizio Giudice

Giuliano Ladolfi ed., 2015

pp. 32
 6



"Questo per dire quanto / resta di qua della pagina / e bussa e non può entrare, / e non deve". Così, con questa epigrafe-summa di Valerio Magrelli, il lettore viene cautamente introdotto nel micro-universo poetico di Varianze (Giuliano Ladolfi editore, 2015); così, con un invito, pacato ma fermo, a muoversi in maniera intelligente e discreta tra queste pagine, rispettando le zone d'ombra e i confini di una parola poetica che, distante dallo 'squadrare da ogni lato l'animo nostro informe', per dirla con il Montale degli Ossi, "resta di qua" a mostrare i suoi limiti e i lividi di una fragilità che è, in fondo, umana troppo umana. 
La stessa scelta dell'autore, Maurizio Giudice (catanese classe 1979), di affacciarsi al panorama poetico nazionale con una plaquette di soli tredici componimenti, più che frutto di "una concezione di poesia, vicina alla filosofia buddista, come pratica contemplativa di quel vuoto che l'ensō, il cerchio della simbologia zen, circoscrive e da cui le cose s'affacciano", come scrive Giuliano Ladolfi nella presentazione, sembra modellata su un'esperienza vissuta e sofferta che denuncia, alla fine (o all'origine) di tutto, una mancanza dilaniante: "Ho chiamato tutti tranne quel numero, / è rimasto sulla punta delle dita, imperfetto. / L'ho composto cinque volte stasera, / era un modo per averla vicina. / Le costole, le clavicole, strappate ai tasti, sono qui, / in una parte infinitesimale della mani". 
Un'esperienza, dunque. Che certamente viene rarefatta da un esercizio stilistico molto riuscito di essenzialità e sottrazione della dizione poetica, ma che con altrettanta evidenza non può prescindere dalla dinamica reale sottesa a un incontro: qui, drammaticamente, con i "tuoi occhi vuoti / mentre parliamo d'altro", come si legge in un testo che, rovesciando non senza significato il nomen dell'intera opera, si intitola Permanenza. E infatti quando l'io poetico dà 'voce' a questo incontro, grammaticalmente sintetizzato da una prima persona plurale, è sempre per mettere a nudo uno iato incolmabile o una precarietà di istanti o anni che rivela un'estraneità: "Calcoliamo il perimetro degli oggetti, / lontano dall'abitarli"; "Spenta l'ultima lampadina, restiamo / con le dita attaccate alla notte"; "Abbiamo attraversato vent'anni, / ma non sono serviti a renderci familiari". 
In questo scenario la parola poetica non consola; si ritira, lasciando il campo libero al deserto che avanza: 
Il deserto avanza: nella rubrica telefonica
i numeri hanno cambiato di posto,
non trovo più le facce, i luoghi, le date.
Il deserto sale, ripara le pieghe dei nostri passaggi.
Ma, ci permettiamo di chiosare, quella di Maurizio Giudice non è sfiducia nella potenza del dire, piuttosto è una lucida presa di coscienza dello scarto abissale tra la scrittura (che rende l'esperienza 'leggibile') e le sedimentazioni della realtà, che è come dire tra l'assenza nel presente e una presenza fantasmatica sempre collocata nella memoria: 
Le dita non trovano la strada, sono trasparenti
le costole, il ventre. Le dita non trovano più la strada
che le tue gambe, come un orologio,
segnavano così bene.
Il silenzio - o il vuoto buddista richiamato graficamente dalla copertina - allora non può bastare:
Così che il silenzio non basta,
bisogna raccontarlo, indicarvelo
col dito - un rumore
ininterrotto,
fermarsi: ecco. 
È qui, da questo fondo sonoro indistinto, da una lacerazione ininterrotta, che nasce il poeta. E la poesia. 


Pietro Russo