“Adua” di Igiaba Scego


Adua
di Igiaba Scego
Giunti, 2015

pp. 192
€ 13


L’ultimo libro di Igiaba Scego si intitola Adua ed è arrivato in libreria, per la Giunti, lo scorso due settembre. Lo stesso giorno veniva ritrovato sulla spiaggia di Bodrum in Turchia il corpo senza vita del bimbo curdo la cui foto avrebbe fatto il giro del mondo. Una coincidenza che ha poco da dire sul piano storiografico ma che forse aggiunge qualche pensiero in più alla riflessione su accoglienza e cittadinanza di questi tempi.

Tempi che riflettono altri tempi, ed è questo che crea la Scego in Adua: una sovrapposizione di tre migrazioni, tre viaggi, in tre tempi diversi. Il primo tempo è rappresentato dal padre di Adua, Zoppe, che discende da una famiglia di indovini somali ma che fa il traduttore per i fascisti e che involontariamente si trova ad essere complice di un tradimento ai danni del suo popolo. Il secondo tempo è quello di Adua, che negli anni Settanta, quando ha diciassette anni, scappa dalla Somalia della guerra civile e si trasferisce a Roma, inseguendo la promessa di una carriera nel cinema. L’unica produzione a cui prenderà parte sarà quella di un film erotico di basso livello intitolato Femina somala, causa di violenze fisiche e psicologiche e di nessuna soddisfazione. Sola in un mondo che le appartiene a metà, Adua confida le sue emozioni alla statua dell’elefantino del Bernini, in piazza della Minerva.
Mi piace Roma d’estate, soprattutto la sua luce di sera, sul far del tramonto, è calda e anche i gabbiani diventano più buoni e viene voglia di abbracciarli. Sono i padroni delle piazze, ma qui ci sei tu, elefantino mio, e loro non si azzardano. Via, state lontano da piazza Santa Maria sopra Minerva! Mi sento protetta vicino a te. Qui sono a Magalo, a casa. […] Ho bisogno di essere ascoltata, altrimenti le parole si sciolgono e si perdono. "Guarda la negra, parla da sola" dicono i passanti e ci indicano Ma noi non badiamo a loro. Ci intendiamo a meraviglia io e te, dopotutto veniamo dall’Oceano Indiano.
Sono Adua e Zoppe a raccontare la storia, ma i loro tempi si intrecciano anche col tempo dei barconi e dei viaggi disgraziati dal nord Africa e dalla Siria, tempo rappresentato da Titanic, uno tra i tanti sbarcati a Lampedusa. Adua lo incontra ubriaco alla stazione termini, lo porta con sé, lo sposa per ricevere un surrogato di gratificazione fisica e sentimentale di cui ha bisogno.

I tempi della storia, e così anche quelli della narrazione, si intrecciano tra loro, invitando il lettore a ricercare le corrispondenze chiare o nascoste di questo intreccio. La macchia della colpa, quella di aver tradito il proprio paese e la propria dignità, e l’umiliazione del proprio corpo, sono tramandate dal padre alla figlia, e infine espiate da entrambi i personaggi. Ma la ricerca di un’identità è per Adua ancora più complessa che per Zoppe perché mette in gioco non solo le coordinate di razza e di condizione sociale (cioè l’essere nero e l’essere povero), ma anche quelle di genere, l’essere donna. Adua come il padre lotta per l’inclusione della sua diversità razziale e culturale nel Paese a cui decide di appartenere e che già conosceva bene dai libri, perché la Somalia era stata colonia italiana. Ma in più del padre lei deve anche lottare per aver riconosciuta la sua dignità di donna in una maschilissima società italiana: le pagine in cui viene descritto l’abuso del corpo nero e femminile di Adua sono le più dure di tutto il romanzo.

La Scego non nomina nessun vinto e nessun vincitore. Se Adua guadagna un po’ di rispetto nella società in cui costruisce la sua nuova identità di donna italo-somala, lo fa senza imporsi nel romanzo né come eroina né come martire. Ad esempio, il rapporto tra Adua e Titanic rispecchia l’ambiguità delle storie e delle identità dei personaggi: lei lo maltratta un po’, lo chiama ironicamente col nome di una nave che affonda; lui le mostra la dovuta devozione ma la considera comunque una "vecchia Lira", un’immigrata di una generazione precedente alla sua.

La realtà dell’Italia alle prese con gli inevitabili retaggi del suo dimenticato colonialismo e che contemporaneamente affronta goffamente l’urgenza delle attuali tragedie nel Mediterraneo è un’Italia complessa, non etichettabile, e la Scego, autrice consapevolissima di ciò ed esperta di dialogo transculturale, rende bene questa complessità nel suo romanzo. In Italia il tempo della colonizzazione della Libia, della Somalia, dell’Etiopia e dell’Eritrea è stato dimenticato e se riappare lo fa con una veste sbiadita e ingentilita. Notevole è il caso di un articolo apparso sul Corriere della Sera nel giorno dell’ottantesimo anniversario dell’inizio della guerra d’Etiopia che sembra riesumare non solo quel momento dell’epoca fascista, ma anche i toni (leggi su il Corriere della Sera), e che minimizza neanche troppo velatamente l’uso delle armi chimiche da parte dei fascisti, affermando che la vittoria italiana ‘è dovuta soprattutto alla netta superiorità di mezzi in tutti i campi’. Un’ assurdità non capire che quel momento storico dovrebbe piuttosto essere uno strumento (tra altri che purtroppo l’Europa sembra non possedere) per capire il tempo presente, la sua incapacità di porsi le giuste domande sulla questione della cittadinanza, il suo ottuso e tardivo disorientamento di fronte alla foto del bimbo ritrovato a Bodrum. Ed è esattamente all’incrocio tra questi due tempi che si colloca la forza dell’ultimo libro della Scego, scomodo e quindi da leggere.



Serena Alessi