CriticaLibera - Tra finzione e realtà: la questione dell’identità nell’opera di Emmanuel Carrère



La Moustache e L’Adversaire sono due titoli firmati da Emmanuel Carrère, scrittore contemporaneo francese. L’uno inventato di sana pianta, l’altro basato su una storia vera, entrambi si concentrano sulla questione dell’identità e della perdita di sé.


La Moustache, éd. Folio Gallimard, 1987.
La Moustache è un récit breve ma intenso. Il protagonista, Marc, decide di tagliare da un giorno all’altro i baffi. Questa scelta segna il destino psicologico del protagonista. Tutti i suoi conoscenti, moglie compresa, sostengono che Marc non abbia mai portato i baffi. A tal punto che il protagonista si ritroverà a dover trovare il maggior numero di indizi possibili per provare a se stesso e agli altri la sua verità.
Influenzato dal punto di vista del protagonista, il lettore è confuso. Ricompone i pezzi del puzzle con Marc, tenta in tutti i modi di provare la propria sanità mentale, cerca le foto con lui, insiste nel mostrare le prove, patisce la sua crisi personale, sostiene le sue teorie circa un complotto a sue spese. Marc è spaesato, perde la cognizione di sé. La sua identità è focalizzata in quel tratto distintivo, i baffi, la loro perdita comporta una conseguente perdita del sé. Se in più quella perdita viene compromessa, enfatizzata e smentita dalle persone amate, il dado è tratto. Non resta altro che cercare prove per smentire il giudizio altrui, si tesse una rete infinita di supposizioni e teorie senza fondamento.
Giocato su una narrazione enigmatica e oscura, il récit costruisce il labirinto profondo dell’identità umana. Un labirinto infinito ma vuoto, un labirinto che si desidera colmare, costruire, rafforzare. Un labirinto talmente fragile da essere spazzato via alla prima folata di vento. Così, il baffo diventa il simbolo di un’identità basata sulla fisicità, sulla società, sugli stereotipi esterni. Persa la coscienza fisica di sé, l’identità diventa un’ombra incolmabile e minacciosa. Un fardello insormontabile e autodistruttivo che può comportare conseguenze catastrofiche.

L’Adversaire è invece il reportage di un dannato sulla Terra. Ispirato da un fait divers[1] letto su un quotidiano, Carrère decide di avviare una corrispondenza e di seguire il processo del pluriomicida Jean-Claude Romand.
L'Adversaire, éd. Folio Gallimard, 2000.
Il punto focale della vicenda dell’imputato è la mancanza di identità. Jean-Claude Romand, per ben diciotto anni, si finge altro da sé. In altre parole, interpreta un ruolo di sana pianta: finge di essere un laureato in medicina, di essere un ricercatore dell’OMG in Svizzera, di frequentare alcuni dei più importanti nomi in campo medico, di avere un florido conto in banca. Il florido conto in banca è in realtà sostentato dai genitori, dai suoceri e dall’amante che a loro insaputa affidano all’uomo ingenti somme di denaro da far versare su conti svizzeri, convinti di trarne profitti considerevoli. Giunto al varco, la verità ormai alla luce, Jean-Claude Romand decide di mandare a miglior vita chiunque possa minare il suo ruolo. Sua moglie, i suoi bambini, i propri genitori.
Ciò che emerge da questo resoconto dettagliato, narrato da diversi punti di vista, è quello di un’identità inesistente, minata da un’educazione rigida e da un malessere mai sanato. Jean-Claude Romand passa dal ruolo del medico stimabile e di successo a quello del pluriomicida cosciente e pentito, per poi passare a quello del fedele illuminato e in espiazione.
L’identità di questa persona, tuttora in vita e in procinto di scontare la propria pena capitale, è basata su maschere adattabili all’occasione. Un’identità malleabile ma ben costruita, a tal punto da ingannare anche le persone a lui più care.

Se nel primo récit il lettore spalleggia il protagonista e lo aiuta a cercare i pezzi della sua identità ormai in frantumi, nel secondo caso è la realtà a far da padrona. Spiazzato dall’autenticità dei fatti accaduti, il lettore teme di dare un giudizio, di proferir parola, di schierarsi dalla parte di un’identità non definita e non definibile. Lo stesso Carrère, resosi protagonista del suo reportage, non riesce a prendere un partito definito e non smette di mettere in luce i suoi dubbi sull’identità dell’imputato. Non a caso, la conclusione del testo non lascia dubbi:

« J’ai pensé qu’écrire cette histoire ne pouvait être qu’un crime ou une prière »

La questione dell’identità, reale o fittizia che sia, è pertanto ben percettibile nell’opera di Carrère. Uno scrittore da me stimato perché in grado di mettere in evidenza con maestria letteraria uno dei più grandi dilemmi dell’uomo contemporaneo.

Arianna Di Fratta




[1] Fatto di cronaca.