#CriticaLibera: Luigi Mario (Engaku Taino), "Lo Zen e l'arte di scalare le montagne"

 

Lo Zen e l'arte di scalare le montagne
di Luigi Mario (Engaku Taino)

Monterosa Edizioni, 2015

pagine 243







Invecchiando dovrei sentire più freddo e invece talvolta vado al Gran Sasso e sulle Alpi in pantaloni corti, e se sono lunghi sono leggeri, di cotone. Sopra basta una maglietta pure di cotone e, quando sembra che il tempo debba cambiare, un'altra maglia. Invece quegli anni, ovunque s'andasse e in qualunque stagione, c'erano i calzoni alla zuava di lana o di velluto, i calzettoni al ginocchio e ovviamente gli scarponi. Sopra una maglia di lana a carne, la camicia di flanella, il maglione, e naturalmente una giacca, almeno nello zaino.

In queste poche parole si trova un compendio esemplare di quello che è stata l'evoluzione dell'alpinismo negli ultimi cinquant'anni, sviluppatosi da impresa titanica e pionieristica a sport tecnico-tecnologico alla portata di (quasi) tutti.

Lo Zen e l'arte di scalare le montagne di Luigi Mario ripercorre la storia dell'arrampicata in Italia dagli anni Cinquanta ai giorni nostri attraverso la vita dell'autore stesso, personaggio singolare che nulla condivide con gli stereotipi che caratterizzano gli scalatori, soprattutto quelli particolarmente noti al grande pubblico e vezzeggiati dai media di settore.
Luigi Mario è un alpinista inconsueto a partire dalle origini: non ha un nome teutonico corazzato da un surplus di consonanti e non nasce in Val Bognanco o sulle Dolomiti bensì a Roma, lontanissimo da quelle vette che su di lui eserciteranno un'attrazione irresistibile fin dagli anni dell'adolescenza.


Questa "quasi autobiografia" narra di una persona mossa da una inesauribile curiosità per gli aspetti materiali e interiori dell'alpinismo e della vita, uniti in una simbiosi tutt'altro che scontata, frutto delle riflessioni sulla condizione esistenziale che porteranno l'autore a trascorrere diversi anni in un monastero buddista in Giappone e a diventare un monaco Zen. Tornato in Italia nei primi anni Settanta, Engaku Taino (questo il nome datogli dai monaci) riprende l'attività di alpinista e di istruttore di sci e di alpinismo, suscitando la curiosità generale a causa del suo aspetto insolito (i capelli rasati in quel periodo erano una rarità) e l'assoluta ammirazione per le sue capacità tecniche ma soprattutto per il rigore etico che caratterizzava - e caratterizza ancora oggi - il suo essere completo prima ancora che la sua dimensione professionale.

[...] lo Zen non ha un fine in sé, anche se si lotta per raggiungere la cima della montagna chiamata Buddhità, perché Zen è scalare la Montagna. Lo Zen non inizia sulla cima, così che sciare non è solo fare le curve, ma è in ogni momento, dal mettersi gli sci al fare la fila, dal risalire il pendio al fare la curva, scendere in neve fresca o su una pista ghiacciata, nel caldo e nella bufera.

Luigi Mario si discosta anche dagli stereotipi che vogliono il monaco buddista come un eremita ripiegato sul suo ombelico e avulso dal mondo reale. Egli è invece ben radicato nella fisicità delle cose in quanto condizione essenziale affinché la dimensione spirituale acquisisca senso compiuto.

[...] è venuto il tempo di un nuovo tipo di asceta e non è più possibile restare isolati sulle montagne o nei conventi. Si può e si deve stare soli per un po', per guardare bene nel profondo di sé, questo è vero, ma poi si torna fra gli altri. La vita non è isolamento, ma è anche salire sul tram e sull'aereo con gli altri, fermare l'auto al semaforo rosso per fare passare quelli che hanno il verde, dormire in stanze di alberghi su letti ove migliaia di altri corpi hanno riposato prima di noi.

Lo Zen e l'arte di scalare le montagne non insegna - è ovvio - ad arrampicare e neanche a diventare buddisti, però offre al lettore qualcosa di più prezioso, come la possibilità di riflettere su alcuni aspetti della modernità, del rapporto con l'Altro e della vita in generale seguendo la prospettiva di "Gigi" Mario, questo "uomo lieve", come ebbe a definirlo Buzzati, capace di restituire la profondità dei suoi pensieri e la serenità del suo essere, senza mai imporsi e senza atteggiamenti messianici o didascalici.
Credo che la sua meravigliosa "levità" poggi proprio su queste basi. Converrete con me che non è poco.

Stefano Crivelli