#CriticaLibera - "Forgive, perhaps. Forget, never": sentirsi già orfani di Downton Abbey



E così dovremo dire addio all’elegante mondo di Downton Abbey. È di poche settimane fa infatti l’annuncio ufficiale che la prossima stagione - la sesta, che nel Regno Unito verrà trasmessa presumibilmente il prossimo inverno - del celeberrimo drama inglese sarà, ahimè, la season conclusiva. Non basteranno repliche, dvd e forum a consolare i milioni di fan in tutto il mondo che in questi anni hanno seguito le vicissitudini della famiglia Crowley e della servitù all’ombra della tenuta di Dowton. Un successo di pubblico e di critica dovuto alla magistrale sceneggiatura del premio Oscar Julian Fellowes, alla rievocazione puntuale curata fin nel minimo dettaglio e alla sapiente recitazione dei protagonisti – molti dei quali diventati celebri presso il grande pubblico proprio grazie alla serie e proiettati verso nuove esperienze televisive e soprattutto cinematografiche oltreoceano – elementi che insieme hanno decretato il successo della serie. 


La storia di Lord Grantham (Hugh Bonneville), attuale conte di Downton, la moglie americana Cora (Elizabeth McGovern) e le figlie, Lady Mary – la maggiore, interpretata dalla splendida Michelle Dockeray – Edith (Laura Carmichael) e Sybil (Jessica Brown Findlay), che lottano contro leggi fondiarie, rovesci finanziari, drammi privati e storici, mentre le loro vite ai piani alti si intrecciano – spesso in maniera alquanto imprevedibile – a quelle della servitù, donne e uomini di simili passioni ma destini estremamente differenti, ha incantato milioni di spettatori in ogni dove, portando al successo un prodotto televisivo di rara qualità e accuratezza storica, intelligente e garbato. Partiamo dalla storia alla base dello sceneggiato: una magnifica tenuta, si diceva, dimora dell’attuale conte di Grantham, Robert, capofamiglia piuttosto scettico di fronte ad ogni possibile cambiamento che i tempi via via sembrano imporre, tenutario giusto e attento, ma anche uomo capace di debolezza, cadute ed errori di giudizio; al suo fianco da più di vent’anni la ricca moglie americana Cora, sposata per interesse ma nei confronti della quale in breve tempo era nato anche il sentimento a renderli innamorati e complici nonostante le difficoltà. Tre figlie femmine: Mary la maggiore, caparbia, snob, fredda all’apparenza ma capace di lampi di gentilezza; Edith, impacciata, cresciuta nell’ombra della più affascinante Mary, tagliente e preda di infantile gelosia, poi sempre più matura e capace di prendere in mano il proprio destino; ed infine Sybil, la minore e più dolce delle sorelle Crowley, pronta a sfidare la famiglia e il mondo nel nome della propria indipendenza e felicità, dapprima mediante piccoli gesti di ribellione (scelte di moda decisamente audaci per l’epoca), cercando l’affermazione fuori dal mondo privilegiato di Downton ed infine scegliendo da sè l’uomo da amare, andando contro le convenzioni e il volere della famiglia. Ma tra spose abbandonate all’altare, matrimoni sconvenienti e reputazione da difendere, è su Lady Mary e l’ultimo erede della fortuna dei Crowley, l’avvocato borghese Matthew (Dan Stevens), che si concentrano le aspettative della famiglia. La legge e il testamento del defunto conte di Grantham (il padre di Robert) prevedono infatti che la tenuta (e i soldi di Cora a cui il testamento li ha vincolati) siano ereditati da questo giovane impacciato avvocato di Manchester, inizialmente accolto con una certa diffidenza per i modi semplici e il desiderio di non farsi mutare dalla rigida etichetta della famiglia, ma ben presto amato come un figlio dallo stesso conte di Grantham.

Matthew porta con sè la madre Isobel (Penelope Wilton), rimasta vedova molti anni prima, donna diretta ed energica, sempre pronta a spendersi per gli altri e poco incline ad adattarsi ad un ruolo marginale come si converrebbe. Impareggiabili sono quindi i battibecchi tra la signora Crowley e la contessa madre, Lady Violet, una Maggie Smith davvero strepitosa, che non risparmia la sua ironia nemmeno nei confronti della consuocera americana:

 I’m so looking forward to seeing your mother again. When I’m with her I’m reminded of the virtues of the English.
But, isn’t she American?Exactly.


La vitalità, la battuta pungente, l’eleganza e lo stile, la caparbietà e l’intelligenza della contessa sono inarrivabili, il suo personaggio di gran lunga il più brillante di tutta la serie e la Smith decisamente perfetta per questo ruolo. Sue le battute più fulminanti entrate ormai nella “leggenda” di Downton Abbey, al punto da spingere gli sceneggiatori a concedere al suo personaggio uno spazio maggiore – con svolte davvero inattese – nella quinta stagione da poco conclusa.
All’altro capo della scala sociale, quegli uomini e donne della servitù senza cui lo splendore di Downton sarebbe impossibile e le cui vite si intrecciano a quelle dei signori ai piani alti. È un viavai di camerieri ambiziosi, aiuto cuoche, cameriere personali, valletti, che sfilano sotto lo sguardo serio e attento di Mr Carson (Jim Carter), il maggiordomo di Downton, e della severa ma giusta governante Mrs Hughes (Phyllis Logan). Immancabili ovviamente rivalità, screzi, sotterfugi e segreti, tra le stanze dei servitori come tra quelle dei padroni, a rendere senza dubbio più vivace ed interessante la vita tra le mura di Downton.

La storia privata di amori, tradimenti, sgarbi e gelosie, amicizie ed alleanze, si intreccia alla storia dell’Inghilterra e del mondo dal 1912 (il primo episodio parte dalla sconvolgente notizia del naufragio del Titanic) fino al 1924, che la sceneggiatura riesce abilmente ad integrare con il dovuto equilibrio. Accanto a drammi storici ben noti, dalla già citata tragedia del Titanic con cui si avvia la serie, alla prima guerra mondiale che occupa un’intera stagione di Downton Abbey e le cui conseguenze vanno anche oltre, passando per un’innumerevole serie di fatti grandi e piccoli che hanno segnato la società inglese dei primi decenni del secolo scorso: è la fine dell’età edoardiana e la nascita di un nuovo mondo, dove i rigidi dettami del vecchio ordine sociale vanno sempre più stretti alle giovani generazioni che si fanno più intraprendenti e indisposte nei confronti delle regole imposte dai propri padri. La capacità di integrare tanto abilmente la riflessione storica e sociale in uno sceneggiato televisivo è sicuramente uno dei maggiori punti di forza di Downton Abbey, segno di quanto sia ancora possibile – e necessario – intrattenere il pubblico mediante un prodotto intelligente e garbato.

E se in Italia la downtonmania non è mai davvero pienamente esplosa - non al livello almeno degli altri Paesi in cui la serie è stata esportata con notevole successo - i motivi restano per me ancora un gran mistero, al pari delle stravaganti scelte di messa in onda sulle reti italiane. Resta il fatto che Downton Abbey sia una delle serie drammatiche in costume di maggior successo di tutti i tempi, acclamata dalla critica al punto da essere inserita nel Guinnes dei primati del 2011 come lo show più premiato e sulla cui scia, immancabilmente, hanno trovato spazio prodotti televisivi o letterari affini. In primo luogo il piacevole racconto di Fiona Carnarvon, attuale contessa di Highclere Castle (non a caso location principale della serie), che nella biografia Lady Almina e la vera storia di Downton Abbey ha ricostruito la vera storia della ricchissima ereditiera americana Almina Wonpwell giovanissima divenuta sposa del conte di Carnarvon e sulla cui figura pare sia ispirato il personaggio di Lady Cora. L’autrice racconta la storia di questa donna forte e sorprendentemente moderna, che grazie al proprio denaro e alla propria abilità ha saputo affrontare le sfide dell’epoca e custodire al meglio possibile la tenuta per le generazioni future.
Ma penso anche ad altre due pubblicazioni piuttosto diverse tra loro, entrambe legate in qualche modo al successo del drama inglese: Ai piani bassi di Margaret Powell, che descrive la vita di una giovane aiuto cuoca alle dipendenze di un’abbiente famiglia inglese degli anni Trenta mettendo ben in risalto quel dualismo tra noi e loro alla base anche del successo di Dowton Abbey; o il recente Longbourn House, di Jo Baker e sempre edito da Einaudi, che sposta il racconto della vita quotidiana della servitù ancora più indietro nel tempo, all’età della Reggenza, tra i domestici della celeberrima famiglia Bennet. Ovviamente sono solo due esempi recenti di un filone ben consolidato nella tradizione letteraria, che semplicemente rappresentano l’interesse riscoperto per un mondo ormai perduto, sulle cui dinamiche ancora ci interroghiamo e che non smette di incuriosire, anche grazie al successo della serie ideata da Julian Fellowes.

Se Downton Abbey ha in qualche misura influenzato il gusto del pubblico nella scelta di queste storie, la ricostruzione dell’epoca edoardiana e poi, soprattutto, gli anni Venti protagonisti delle ultime stagioni della serie (negli ultimi anni protagonisti anche di numerosi film e serie), hanno affascinato il pubblico e fornito nuova ispirazione a moda, musica, costume.
Siamo impegnati sui social, cerchiamo di combattere la barbarie che nostro malgrado sembra dilagare sempre più di questi tempi (si, mi riferisco anche alla terrificante asta per i selfie, tra i più recenti attacchi al buongusto), ci destreggiamo tra i mille impegni quotidiani (e per più di un momento forse guardiamo con un pizzico di invidia a quelle deliziose giornate spese solo tra visite di cortesia, battute di caccia, picnic e cene da programmare che sono invece la routine della famiglia Crowley): eppure, nel tempo dilatato di un episodio della nostra serie preferita, una tazza di tea fumante – rigorosamente all’inglese, obviously – lo sguardo incantato da tanto sfarzo e buongusto, ci sentiamo anche noi subito più raffinati e decisamente più inglesi. Almeno per scongiurare il rischio di essere ammoniti da Lady Violet:

Vulgarity is no substitute for wit.

di Debora Lambruschini