"Philip e gli altri" di Cees Nooteboom




Philip e gli altri 
di Cees Nooteboom
Milano, Iperborea, 2005
Prima edizione olandese, 1955.

Traduzione di David Santoro.
Postfazione di Rudiger Safranski

pp.168
13,50


Pubblicati a distanza di pochi anni l’uno dall’altro, tra il 1945 e il 1951, In gioventù il piacere di Denton Welch, Il giovane Holden di Salinger e La veglia all’alba di James Agee consegnano alla letteratura una originale mappa della formazione, che rilancia alcuni temi propri della gioventù, della letteratura che si incardina nel racconto della gioventù, altri li reinventa. Certo è che, comunque, il mito di Holden presto spazza via gli altri due romanzi, quello di Agee estremamente complesso, fitto di allegorie, quasi un tentativo filosofico di descrivere, nel turbamento adolescenziale, il rapporto tra l’Io e il Tutto, l’infinitamente grande del mondo e la necessità di costringerlo nell’infinitamente piccolo dell’uomo, appena esso si rivela, all’alba della maturità, quello di Welch troppo presto consegnato, per una fraintesa semplicità dello stile, allo scaffale della buona narrativa per ragazzi che più di tanto, dopo Il grande amico di Alain-Fournier, si credeva (si crede) non possa dare. 
E così Holden, vincendo sugli altri due romanzi coevi, e quindi sugli altri due modi di raccontare ed intendere la formazione – quello simbolico-allegorico e quello fantastico-immaginifico – con la sua vicenda elettrica, nevrotica, la lingua frizzante, il discorso diretto e immediato, adrenalinico e quasi tutto visivo, gestuale, attivo, da un lato inaugura una lunga stagione di epigoni holdeniani, tuttora fiorente e nel tempo più o meno rilevanti, dall’altro pare chiudere, con la potenza del suo mito, la possibilità di raccontare le stesse cose in modo diverso, cioè la formazione itinerante – il viaggio di formazione – con altro stile che quello all’americana di Salinger.

Pubblicato nel 1955, scritto da Nooteboom l’anno prima, appena ventunenne, Philip e gli altri, oltre a rivelarne il talento, offrì una prova di come il viaggio, topos del romanzo di formazione, potesse essere raccontato in modo affatto diverso, tanto nella lingua quanto nella trama, rispetto ad Holden. Il romanzo di Nooteboom parve offrire la possibilità che la Bildung non si esaurisse nella arrogante e giovanile enumerazione di eventi che accadono al protagonista e da cui egli emerge come mito cool e potente – modello di una narrativa spesso secondaria, in cui il giovane sa tutto, affronta tutto con cognizione e si comporta nel modo migliore e più affascinante possibile davanti a ogni evento gli capiti, mostrando così l’essenziale inautenticità della formazione stessa, giacché pare essere il ragazzo a formare il mondo e le figure intorno a sé, e non il contrario – bensì che essa fosse raccontata come un accostarsi stupito al mondo e alle sue rivelazioni da parte di un personaggio, Philip, che vi si avvicina consapevole di poterne essere travolto, di non poter altro che farsi travolgere, dalla sua magica incomprensibilità, dal mistero delle cose, insensate, stravaganti, romantiche e irrazionali che popolano la terra.

A differenza di Holden, il viaggio di Philip – che dall’Olanda si sposta lungo gran parte dell’Europa continentale fino alla Danimarca e alla Lapponia, in autostop, pochi soldi in tasca e una curiosità ancora pre-adolescenziale – è narrato in modo che i protagonisti siano i personaggi che egli incontra e di cui si fa confessore, di cui ascolta le testimonianze, i ricordi, gli aneddoti, registrandoli e accettando dunque di portarli con sé, di farsene portatore. Nel corso del racconto, le figure più disparate si avvicinano al protagonista, che presta la voce e la penna alle loro vicende, mettendosi da parte e lasciando loro la scena, la pagina: una donna dagli occhi dolenti che ha perso un bambino, una compagnia di viaggiatori ognuno con le proprie storie, un camionista, una ragazza di cui forse ci si potrebbe innamorare, una sconosciuta dal viso cinese alla cui ricerca Philip si mette, infine – e al principio – lo zio, figura malinconica, prima storia ad essere raccontata, nella sua limpida bellezza, da cui tutto origina e tutto discende. Philip coglie le storie di tutti quelli che incontra, perché sente che è necessario ascoltarli, per loro, per lui, perché il senso di queste storie non si esaurisce in se stesse, né nella necessità, di chi le racconta, di liberarsene raccontandole; perché, alla ricerca di un senso del mondo, della realtà, dell’uomo, Philip crede di poterlo trovare accostandosi a chi lo abita per sentirne la versione, ognuna diversa, unica, ognuna che può contribuire alla comprensione delle cose, a spiegare come le cose vanno, e perché. Qui non c’è nessuna realtà, ma soltanto storie che abitano come grumi le figure che le hanno vissute e che devono raccontarle; e al centro, magnetofono del circostante – delle circostanze e di chi gli si avvicina – un protagonista apertamente indifeso, disarmato, privo di quell’ironia e del sarcasmo di Holden, puro davanti a tutto ma non per questo inesperto (prova ne sia, quando succede, una primitiva capacità sessuale, per lui che era vergine a tutto). Mentre si svolge il viaggio del suo protagonista, protagonisti del romanzo sono tutti quelli che lo incontrano: per Philip, ogni storia è un mistero incantato, un passo avanti nella comprensione del mondo e nella comprensione che il solo modo per comprendere davvero il mondo è non aspettarsi una risposta definitiva, sapere che ogni evento, ogni persona, ogni incontro porta con sé un modo tutto nuovo, un punto di vista sempre originale, dal quale e col quale guardare alle cose.

L’opinione dell’editore, Iperborea, raffinata casa editrice che quasi solamente si occupa di letterature nordiche – frontiere, le uniche forse ancora rimaste, in Europa, linguistiche e culturali, geograficamente liminari – è che siamo qui di fronte a un “Grand Meaulnes dei nostri tempi, uno di quei libri con cui entriamo in risonanza e di cui si nutre la nostra nostalgia”. La postfazione di Rudiger Safranski, amico di Nooteboom e non a caso filosofo, si concentra sulla dimensione malinconica del romanzo, sospeso in una duplicità tra realtà e fantasia, tra eventi che sono “feste” e racconti che rappresentano il sottofondo imprescindibile della narrazione, di ogni narrazione e trovando nell’opera di Hoffman il riferimento letterario principale. In effetti, il romanticismo – è un’opera giovanile – pervade le pagine, e con esso un senso del mistero, dell’inafferrabilità del senso delle cose, del loro senso definitivo, che ne fa emergere lo stile, fantastico senza essere onirico in modo inverosimile, malinconico senza essere memoriale, asciutto e preciso nonostante le storie sfuggano al senso, alla possibilità del loro esaurimento.

Viene in mente una certa narrativa mitteleuropea e nordica, quella legata alla figura del perdigiorno e alle sue infinite passeggiate, da Eichendorff (Vita di un perdigiorno) al Fame di Hamsun, passando per gli instancabili e giocosi camminatori della letteratura, dalle figure di Robert Walser e di Arthur Schnitzler – ma anche il tocco inquieto con cui Pea tratteggia  le figure di quel romanzo onirico che è Moscardino, o un certo surrealismo metafisico e angosciato, quale quello del dimenticato e sorprendente esordio di Parise, Il ragazzo morto e le comete. Nooteboom dà vita, nel 1955, ad un romanzo di formazione che dichiara apertamente il suo debito, la sua ispirazione, verso un certo procedimento stilistico che è anche un certo modo di vivere e di concepire la vita – e la letteratura – quello cioè di colui che si mette in cammino senza meta prefissa, disposto a tutto, a tutti aperto, pronto a cogliere ogni frammento di realtà gli si presenti, pronto a metterlo, tassello fino ad allora senza un prima e un dopo, all’interno di un circuito narrativo ed esistenziale che lo fa risuonare, che gli fa esprimere appieno il suo senso, pervadendo di sé chi lo accoglie e lo fa proprio, il protagonista. 

“Ho passato il tempo a dire addio e a ricordare, e a raccogliere indirizzi nelle mie agendine come piccole lapidi”, dice Philip, e poi: “Ho il diritto di chiedermelo: sono forse stato meno solo perché qualcuno mi prendeva e mi dava da mangiare e da bere?”. Bambino all’inizio del racconto, ragazzo mentre esso si svolge, quando il cerchio si chiude, nelle mani di Philip, uomo tanto cresciuto quanto in realtà ancora sbigottito dalle cose, resterà questo, un senso di nostalgia per la vita di tutti quelli che ha incontrato e che gli han donato la loro, un senso di smarrimento e di sbigottimento davanti al tutto che dimostra l’acquisizione dell’unica verità che realmente conti – l’unica che realmente conti dopo i romanzi di formazione ottocenteschi e primo novecenteschi, in cui ancora si cercava di rintracciare un senso, e uno solo, nell’ordine del mondo e nella sua storia – e cioè che tutto può cambiarci, qualsiasi storia, evento e persona può essere portatrice di senso, e che nemmeno la più sicura delle cose sarà mai quieta e adagiata sul greto della realtà, se decidiamo di interrogarla.