Buon 2015! I nostri buoni propositi (letterari) per il nuovo anno



Anche quest'anno siamo arrivati al momento dei rendiconti e delle classifiche. Che siano compilate in un intimo voltarsi indietro o nella rumorosa piazza dei social network, tutti noi ci siamo chiesti cosa lasceremo volentieri nel 2014 e cosa, invece, porteremo volentieri nel nuovo anno. Proprio a questo abbiamo scelto di pensare nella redazione di CriticaLetteraria: nessuna classifica, soltanto pensieri buoni per il futuro che salutiamo insieme. Letterari, ovviamente!

Ecco i nostri propositi letterari per il 2015: ognuno di loro è ispirato da un libro che ci racconta come vorremmo essere, o cosa vorremmo fare, e che porteremo sottobraccio nelle nostre giornate. Raccontateci anche voi che cosa vorreste realizzare nel prossimo anno! E inaugurando il nostro decimo anno in rete, vi auguriamo, come sempre, di riuscire a vivere una tra le storie più belle: la vostra.

Tutti vogliamo la felicità: ma come raggiungerla?

La felicità delle piccole cose
di Caroline Vermalle
Feltrinelli, 2014

Traduzione di M. Pesetti

pp. 217
€ 15.00



Chi vende calendari vende belle immagini, non il tempo che passa. (p. 136)
E chi acquista La felicità delle piccole cose fa suo un tempo rarefatto, lo stesso tempo che potremmo ritrovare nelle fiabe. Non perché il romanzo sia ambientato in un'epoca indefinita, ma per l'atmosfera lieve e piacevolmente fatata di una Parigi ammantata dalla neve. Anzi, da una nevicata memorabile, e a pochi giorni da Natale. In più, a far luccicare gli occhi dei lettori (o forse delle lettrici) più sensibili alle belle storie romantiche, i retroscena familiari della passione di Frédéric per i paesaggi invernali degli impressionisti: non si tratta di un semplice gusto estetico; fin dalle prime pagine, il bel quarantenne, avvocato di successo, investe tutti i suoi risparmi (e anche di più) in opere che osserva per ore... Qualcosa si cela lì, dove gli impressionisti dipingono cieli carichi di nuvole e soprattutto scavano orme nella neve... Orme, forse le stesse di quel padre che nel Natale 1979 ha percorso un sentiero che l'ha allontanato per sempre dal figlio Frédéric... Da allora, Frédéric non ha mai saputo che fine abbia fatto suo padre, né ha mai aperto le lettere che negli anni gli sono giunte dal suo indirizzo. Eppure non ha dimenticato: anzi, ha deciso di non avere figli, per spezzare la presunta catena di disamore che ha vissuto. E questo lo fa allontanare dalla fidanzata Marcia. 

#CritiComics | Ricette e fumetti, il patrimonio ereditario di Squaz

L'eredità - Ricette di famiglia
di Pasquale "Squaz" Todisco
Ed. GRRRZ Comic Art Books, 2014

pp. 176

€ 21,00

Partendo dalla retorica nazionalpopolare di Antonella Clerici a quella radical chic di Master Chef (senza dimenticare il superficiale sentimentalismo del critico gastronomico di "Ratatouille"), in Italia la cucina ha scalato nell'ultimo decennio qualsiasi classifica. Non c'è lista dei libri più venduti o elenco dei programmi più visti che non veda nelle prime posizioni una tavola imbandita, un cuoco di professione o uno totalmente improvvisato. Questo ha finalmente dato agli italiani la possibilità di parlare del cibo così come parlano del calcio: se prima tua nonna ci metteva due ore a spiegare una ricetta a tua madre saltando sempre qualche passaggio (un po' per la memoria che se ne va, un po' per non svelare tutti i segreti), ora chiunque può parlare di cibo millantando le stesse conoscenze di uno chef esperto, proprio nella stessa maniera in cui poco prima aveva illustrato complessi schemi calcistici improvvisandosi allenatore della Nazionale. Il problema è che con tutto questo parlare chi tiene più la voglia di cucinare? E quindi mentre il cibo diventa il terzo argomento di discussione più popolare negli ascensori d'Italia (classificandosi subito dopo il meteo e il pallone), i supermercati si riempiono di vaschette con frittate e insalate capresi già pronte, che voi non sapete proprio la fatica che ci sta dietro a spaccare tre uova o a tagliarsi una mozzarella e un pomodoro ma mi raccomando, sostituite l'origano con la menta che dà un certo non so che al piatto.

Pillole d'autore: Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli



L'opera di Anna Maria Ortese (1914-1998), scrittrice italiana, è ancora in attesa del dovuto riconoscimento nel suo paese natìo. La sua scrittura è stata accomunata al realismo magico, ma la commistione di fantastico e reale è un tratto da lei declinato in maniera talmente originale da distaccarsi da ogni etichetta. Nel 2014 è ricorso il centenario della sua nascita, un’occasione per riscoprire le opere della Ortese, che in vita non ha goduto della dovuta attenzione. Nelle università angloamericane – dove sono sempre più numerosi gli studi e i corsi a lei dedicati – convegni, dibattiti e pubblicazioni hanno omaggiato la scrittrice nel corso dell’anno che si sta concludendo, come ad esempio la giornata di studi che si è tenuta a Oxford il 22 novembre, a cui hanno partecipato i più grandi esperti della scrittura Ortesiana. Con l’intento di invitare a una lettura più approfondita della Ortese, propongo qui l'incipit del racconto Un paio di occhiali, che apre la raccolta Il mare non bagna Napoli. Libro incompreso che causò alla sua autrice l’emarginazione dalla città, Il mare non bagna Napoli è rappresentazione letteraria dello spaesamento procurato dalla Napoli del dopoguerra. Uno spaesamento dovuto non solo alla visione esteriore della città/mondo, ma anche a quella interiore. Una nevrosi che è un tutt’uno con la vita e la scrittura della Ortese, provocata dal cozzare della realtà con l’immaginazione, come scrive lei stessa: “erano molto veri il dolore e il male di Napoli, uscita in pezzi dalla guerra. Ma Napoli era città sterminata, godeva anche d’infinite risorse nella sua grazia naturale, nel suo vivere pieno di radici. Io, invece, mancavo di radici, o stavo per perdere le ultime, e attribuii alla bellissima città questo speasamento che era soprattutto mio”. 


Per ulteriori approfondimenti su Anna Maria Ortese rimando alla monografia a lei dedicata da Monica Farnetti: 
Monica Farnetti, Anna Maria Ortese, B. Mondadori 1998.

Buone Feste da tutta la redazione


           Carissimi amici lettori,
abbiamo pensato di augurarvi buon Natale e felice Santo Stefano nel modo a noi più consono: con i libri! Si sa che ne riceverete già tanti, ma se doveste avere ancora qualche dubbio di lettura, ecco che vi consigliamo i titoli che regaliamo noi in queste giornate di Feste. 

          Un abbraccio e tanti tantissimi auguri,
          La Redazione

***


Claudia regala: 
Peep show di F. Baccomo 
(qui trovate la recensione o l'intervista all'autore, come preferite)
Perché leggerlo: l'ultimo maturo romanzo di Federico Baccomo Duchesne, il racconto tragicomico di una vita ai margini dello show business.
A chi regalarlo: a chi ama i libri che parlano del mondo con un po' di disincanto, i dialoghi tra lacrime e risate che fanno pensare: "Quanto è vero, la vita è proprio così".

"Lo spirito del Natale" di Marco Gionta


Lo spirito del Natale
di Marco Gionta

Auralia Edizioni, 2014

pp. 218


Tutti noi siamo testimoni consapevoli in misura più o meno maggiore dello sgretolamento dei valori dell'etica, siano essi di matrice laica piuttosto che riconducibili a un sublime afflato mistico-religioso legato a tradizioni millenarie. Fra queste, rientra certamente a pieno titolo la celebrazione della Natività di Gesù, la cui vera essenza è sacrificata ormai da numerosi decenni sull'altare di un consumismo che occhieggia al paganesimo. Nondimeno, nelle civiltà in cui prevale storicamente il culto del Cristianesimo, almeno una volta l'anno gli uomini sono condotti a pensare all'esistenza di Gesù. Persone che non hanno mai pronunciato il suo nome, una volta l'anno offrono doni in suo nome.
Per questo motivo, come ci spiega l'autore, anziché dolersi per la crescente banalizzazione del Natale, sempre più percepito come un'incombenza talora affrontata con malcelato fastidio per via di tutti quei riti obbligati come l'acquisto dei regali e le riunioni di famiglia non sempre foriere di gioia e armonia, sarebbe forse più saggio meditare sui fatti che accaddero quel giorno, così come narrati dai Vangeli, per riscoprire il vero significato di tale ricorrenza e viverla al meglio.

La Matriarca: la scanzonata storia di una famiglia di ebrei cosmopoliti


La matriarca
di G. B. Stern
Sonzogno, 2014

pp. 320
€  16

Le parole “tribù” ed “ebreo” e “ghetto” portano con sé un inevitabile significato di riccioli unti, nasi adunchi e antiquati soprabiti impellicciati; di un portale tenebroso che si apre su un agglomerato di case annerite; e uno sciame di bambini scuri, con tanto di istinti commerciali per ottenere il meglio dai gentili, ovvero dai non ebrei. Ma ci deve essere stato un equivoco fin dall’inizio, per farsi un’idea del genere della personalità Rakonitz. […] Non si preoccupavano di sedersi e sparlare della loro razza perseguitata, né di attardarsi più del necessario a lamentarsi per la persecuzione del Faraone o del tradimento di Esaù. I Rakonitz erano una famiglia allegra, con la melodia del valzer nel sangue.

Così la Stern, dopo un paio di pagine dall’inizio del romanzo, ci presenta la famiglia protagonista de La Matriarca, questi ebrei chiassosi, allegri, dediti al lusso e al piacere; e così saranno in effetti dall’inizio alla fine, anticonformisti e lontani anni luce dallo stereotipo israelita.
Un romanzo che Sonzogno ha recentemente scelto di recuperare e tradurre per la prima volta in italiano inaugurando, insieme a La garçonne di Victor Margueritte altro titolo pubblicato, la collana Bittersweet in cui dare spazio a piccole perle del passato che il complesso meccanismo editoriale ha costretto all’oblio o che appaiono per la prima volta in traduzione italiana. Come nel caso del romanzo di Margueritte, anche La Matriarca ebbe al suo esordio un notevole successo, tanto da ispirare una pièce teatrale anch’essa piuttosto celebre e confermando il talento della Stern, vivace animatrice del circolo intellettuale della Londra degli anni Trenta. Ma nonostante la fama riscossa dall’autrice nell’ambiente culturale e dal successo delle numerose opere pubblicate, con il tempo reperire i suoi lavori si è fatto sempre più difficile, finchè La Matriarca, il suo romanzo più noto, è stato ritrovato tra gli scaffali della Daunt Books di Londra e da qui, nel 2013, di nuovo pubblicato. In rinnovata o inedita veste, il romanzo è tornato disponibile per il pubblico e la storia della famiglia Rakonitz – o forse per meglio dire delle donne Rakonitz – appare per certi versi ancora deliziosamente godibile.

"Funny Girl" di Nick Hornby

Funny Girl
di Nick Hornby
Guanda, 2014

Traduzione di S. Piraccini

pp. 384
€18.50


Un ritorno attesissimo, questo di Nick Hornby, autore degli indimenticabili Alta fedeltà, Un ragazzo e Non buttiamoci giù. Questa volta ci porta negli anni Sessanta, inizialmente nella dimenticata e provinciale Blackpool, dove la giovanissima Barbara vince un concorso di bellezza. Eppure, Miss Blackpool non è il titolo a cui Barbara aspira: anzi, ne vuole prendere le distanze, perché lei è una "funny girl", e vuole sfondare con la risata in radio e in tv. Un campo difficile, soprattutto per chi, come lei, ha curve e sorrisi mozzafiato. Un paradosso? Forse. Si può essere belli e far ridere? Barbara ci crede, sfida le resistenze familiari e va a cercar fortuna. In particolare, si presenta al provino per una nuova commedia, perché lì ci sono i suoi miti che sente sempre in radio: Clive, Bill e Tony. Poco importa che il copione lasci molto a desiderare: Barbara riesce a far breccia nei suoi miti, e la scalata al successo inizia. Allora Babara si trasforma in Sophie, abbandona le sue origini pur mantenendo il suo accento del nord, che anzi è una forte caratterizzazione per il suo personaggio, che si chiamerà (gioco del destino e/o di saggi rispecchiamenti) Barbara.

CriticaLibera - Donne, grammatica e media. Suggerimenti per l'uso dell'italiano



Donne, grammatica e media
Suggerimenti per l'uso dell'italiano

di Cecilia Robustelli
proprietà di GiULiA giornaliste



Se è vero che la lingua è l’espressione del pensiero umano. E che il modo di pensare è influenzato dal modo di esprimersi. Sembrerebbe che la società italiana sia ancora prevalentemente asimmetrica nella rappresentazione dei generi.
Si sente dire, ad esempio, che gli uomini di potere sono 'i governanti' di Stato, del mondo e così via, mentre le 'governanti' sono ancora della casa. Allo stesso modo 'il cubista' è un pittore, mentre 'la cubista' è una donna che balla su un cubo.
Le dissimmetrie semantiche sono appunto questo: i diversi significati che assumono le parole al femminile rispetto al maschile. Questo vuol dire che la lingua italiana realmente è asimmetrica, nel senso che contiene al suo interno ancora molte dissimmetrie semantiche, rintracciabili in qualsiasi contesto eppure così poco attuali.
Nonostante siano passati ormai trent'anni da quando Alma Sabatini propose per la prima volta delle norme per l’uso non sessista della lingua italiana, nella maggior parte dei testi giornalistici nazionali si passa dall'assenza del genere femminile ad una terminologia nei confronti della donna molto limitata e discriminatoria. Per certe figure professionali o istituzionali si usa ancora il maschile, spesso per scelta delle interessate che credono così di dare maggior lustro alla loro carica,  'segretario' e 'direttore' vengono preferiti dalle donne che hanno raggiunto i vertici, forse perché 'segretaria' o 'direttrice'  appaiono ancora definizioni riduttive e abbinate  a ruoli meno importarti. Anche in questo caso si parla di dissimmetria semantica: il maschile è di prestigio, il femminile no.

Joe Bastianich, il figlio di immigrati che odiava l'Italia

Giuseppino. Da New York all'Italia: storia del mio ritorno a casa
di Joe Bastianich con Sara Porro
Utet, 2014


pp. 201
14 Euro


«Riesce ad assumere toni lirici persino quando parla dell’insaccamento delle salsicce. La separazione non fece che aumentare la bellezza del ricordo: l’unico legame materiale che sarebbe rimasto a mia madre con quell’epoca della sua vita, e con sua nonna, era il cibo».


Per Joe Bastianich, imprenditore del settore enogastronomico e giudice a Masterchef italia, quella con il cibo è una storia antica che racconta nella sua prima autobiografia italiana, GiuseppinoDa New York all'Italia: storia del mio ritorno a casa , pubblicata da Utet e scritta a quattro mani con Sara Porro, giornalista e foodblogger del magazine Dissapore.



Nessun successo capita out of the blue e la famiglia di Joe lo sa bene. Nel 1958 Erminia e Vittorio Matticchio salgono su un aereo diretto a New York: insieme ai figli adolescenti, Lidia e Franco, stanno per incominciare una nuova vita, tra le lacrime e l’angoscia  nel petto. 
Sono italiani, ma costretti a emigrare perché la loro terra, l’Istria, è stata annessa alla Jugoslavia di Tito dopo la Seconda Guerra Mondiale in un clima di crescente oppressione. La comunicazione con le autorità è impossibile, esistono leggi che regolano l’emigrazione ma non sono rispettate, pertanto, la famiglia deve rimanere a lungo fino alla svolta.
Il nuovo lavoro di Erminia prevede l’iscrizione al Partito Comunista locale. Si rifiuta e, insieme al marito, organizza la fuga che li porterà, dapprima, in Italia dove verranno sistemati in un campo d'accoglienza per i profughi dell’esodo giuliano dalmata. Solo dopo due anni sono, finalmente, liberi di partire per l'America.

#CriticARTe - "L'arte, la bellezza e il suo contrario", Andrea Barretta

L'arte, la bellezza e il suo contrario
di Andrea Barretta
Ab/arte, Brescia 2014 

pp. 175


L'arte, la bellezza e il suo contrario di Andrea Barretta è un libricino rivolto, nelle intenzioni dell'autore, a tutti gli amanti delle belle arti, ma destinato a riscuotere consensi (è da credere) soprattutto tra i detrattori e gli scettici nei confronti del contemporaneo e del suo famigerato "Sistema". Per 170 pagine il giornalista e scrittore si scaglia difatti contro quelli che gli appaiono come gli attuali mali (sempre più radicali) della creazione, diffusione e fruizione artistica; una triade, pare di comprendere, arresa alle dinamiche del mero commercio, della spettacolarizzazione a tutti i costi, dell'imitazione del vecchio spacciato per il nuovo, della cattiva coscienza estetica – slegata in toto dall'etica – e condivisa a pari merito da artisti, galleristi, curatori, direttori museali, critici, magnati e mecenati. Lo scenario descritto da Barretta si configura dunque, proprio per questo e soprattutto in Italia, sottospecie di luogo "brutto" e (come da titolo) contrario: contrario, sarebbe a dire, rispetto alla vera essenza dell'arte e della bellezza, individuata dall'autore in una matrice irrazionale e trascendente, affatto priva di accenti spirituali se non esplicitamente religiosi, e atta allo svelamento di significati universali e al sostanziale miglioramento dell'umanità.

Un mistero in bianco e nero. La filosofia degli Scacchi.

Un mistero in bianco e nero. La filosofia degli Scacchi.
di Giangiuseppe Pili
Le Due Torri, 2012
pp. 196, € 18,00



Giangiuseppe Pili ci ha consegnato un volume di difficile collocazione. «Figurarsi!», obietterebbe il lettore disattento: «è un libro sugli scacchi, va collocato tra quelli». Vero, se non fosse che gli stessi scacchi hanno un'identità non facilmente definibile. Sono un gioco, certo, ma un gioco che racchiude interi variegati e complessi universi («Gli scacchi sono il gioco che riflette più onore sullo spirito umano», ebbe a dire Voltaire). 
Quello che l'autore si propone di fare in Un mistero in bianco e nero, poi, non è certo un'indagine sulle mosse da giocare, sulle aperture o sul mediogioco. È molto di più. Si tratta, in buona sostanza, di una riflessione sulle strutture di pensiero mediante cui il giocatore affronta le sessantaquattro caselle e al contempo di uno studio sulla logica alla base del “nobil giuoco”.

Con uno stile brillante e rigoroso come solo un logico può avere – Pili è laureato, per l'appunto, in questa disciplina – lo scrittore riesce nell'impresa di rendere scorrevole e talvolta persino divertente una trattazione di assoluta profondità.

#SpecialeScuola - Tema: racconti semi seri di un anno di scuola nel centro della Sardegna





Qual è il tema più assegnato agli scrittori degli ultimi 150 anni? No, non è il “cosa vedo dalla mia finestra al mattino” e nemmeno “Descrivi la mamma e il papà”: è la scuola.
“Scuola”, come nome comune di cosa, ha varie declinazioni. Può essere l’edificio scolastico in sé e per sé. Schultz ha dedicato diverse strisce alla sorellina di Charlie Brown, Sally, capace di parlare con il proprio edificio scolastico così depresso da suicidarsi e crollare miseramente al suolo.
“Scuola” può essere la base culturale e formativa di un intero popolo. De Amicis ha scritto la migliore propaganda del regno d’Italia partendo dalle interazioni dei bambini di una terza elementare nell’Italia post unità di “Cuore”.
La “scuola” può essere una raccolta di frasi divertenti ed errori improbabili. Jean Charles ci ha fatto sorridere con “Il riso in erba” e “La fiera delle castronerie”. Come dimenticare poi D’Orta con “Io speriamo che me la cavo”?
Ci sono ricordi di scuola, scuole raccontate al cane, studi per non studiare, diari di scuola e, infine, la scuola vista dai maestri. 

Anche un libro cambia la storia

Il manoscritto
di Stephen Greenblatt
Rizzoli, 2012


pp. 364


È di moda indagare su libri, biblioteche, abbazie, monasteri, vangeli perduti, scomparsi, proibiti. Ne è nato un filone oramai inflazionato con romanzi dalla discutibile ricostruzione storica. Nonché contenenti tesi azzardate. Ci sono molte più cose, aveva ragione Amleto, la storia va riscritta, a volte, ma è sempre bene partire da una base scientifica. Poi un amico mi consiglia questo saggio e la prima reazione è di diffidenza. Tuttavia scopro che l’autore, Stephen Greenblatt, è docente di letteratura inglese a Harvard ed è già noto ai lettori italiani per un bel libro su Shakespeare. Memore del pragmatismo tipico degli intellettuali anglosassoni e confidando sulla loro serietà, mi sono liberato da lacci e lacciuoli e procurato il libro che ruota attorno a Poggio Bracciolini, l’umanista che nel 1417 scoprì in un’abbazia tedesca, forse quella benedettina di Fulda, il De rerum natura di Lucrezio.

Più libri più liberi 2014: presentazione dei Consigli inutili di Luigi Malerba

Alla fiera Più libri più liberi c’è stato un incontro diverso dagli altri, che è stato un bel ricordare. Si è svolta domenica la presentazione del libro Consigli inutili di Luigi Malerba, pubblicato postumo dalla casa editrice Quodlibet. A ricordare l’autore e a parlare del libro c’erano Paolo Mauri, Gabriele Pedullà e Ugo Cornia; a introdurre l’incontro c’era la figlia, Giovanna Monardi, la madre in prima fila a raccontare pochi aneddoti. 
«Ogni tanto mio padre smetteva di lavorare ai suoi romanzi e scriveva qualche consiglio inutile», racconta Giovanna e Ugo Cornia legge qualche passo del libro. Poi Paolo Mauri, autore della monografia Luigi Malerba, del 1977, parla di lui, lo ricorda. «A Malerba piacevano i paradossi e i Consigli ne sono pieni. È un paradosso dare un consiglio inutile su come fare il fango, perché si trova in natura, ma se si aspetta la pioggia potrebbe volerci del tempo. Malerba suggerisce di cercare del terreno concavo, di impastare la terra con l’acqua e magari farsi aiutare da un cavallo. Il fango ottenuto dalla creta serve a fare mattoni e pentole; si potrebbero modellare figure a nostra immagine e somiglianza e provare soffiarci sopra come il Padre eterno. La letteratura è il luogo migliore per dare consigli inutili, se consideriamo il primo romanzo di Malerba, arriveremo alla conclusione che non è altro che un consiglio inutile su come sposare qualcuno che non c’è. Il consiglio serve a illuminare una zona oscura. Per esempio, il consiglio sull’uso dei giornali che non servono a dare le notizie ‒ Malerba diffida dai mezzi di comunicazione di massa, che chiama “mezzi di comunicazione di merda”. Questo libro è un’ottima introduzione al modo di vedere di Luigi Malerba ‒ continua Mauri ‒ un punto di vista diverso che propone angolazioni inedite».

Più Libri Più Liberi 2014: Paolo Di Paolo presenta Orlando Esplorazioni



Il mese di dicembre a Roma odora di libri, un po’ prima di natale. La fiera della media e piccola editoria Più libri più liberi si è appena conclusa, con il suo vortice di stand, copertine e segnalibri, shopping bag colorate e tanti, tantissimi incontri tra scrittori, editori e lettori. Venerdì scorso abbiamo seguito quello curato da Giulio Perrone Editore nel quale Paolo di Paolo ha presentato il nuovo numero della rivista Orlando Esplorazioni e l’iniziativa Qual è la storia più importante della tua vita?
Orlando Esplorazioni è una rivista gratuita nata due anni fa da un progetto di Paolo di Paolo, Giulio Perrone e Mariacarmela Leto, che si pone l’obiettivo di essere innovativa, non un semplice contenitore di recensioni. L’idea di base, infatti, è quella di riunire gli autori emergenti e quelli più affermati a confrontarsi su un tema. C’è una sorta di autismo della scrittura, dice Di Paolo, per cui si può scrivere liberamente in molte sedi; a volte invece una piccola “costrizione” costituita da un tema in particolare può portare a qualcosa di buono, sostiene poi citando Proust e la sua frase a proposito della rima che costringe il poeta ma che ne tira fuori il meglio. 

"Ciò che inferno non è" di Alessandro D'Avenia

Ciò che inferno non è 
di Alessandro D'Avenia
Mondadori, 2014


pp. 316
€ 19,00


Panormus, conca aurea, suos devorat alienos nutrit

Le parole incise sotto la statua del Genio di Palermo, a Palazzo Pretorio, ci dicono di una città conca d'oro che, come una madre famelica, divora i suoi abitanti ma nutre gli stranieri. Per definizione è tutta porto e tutta mare, è esplosione infinita di luce e buia come la notte, città segno di un'isola che - per usare le parole di Gesualdo Bufalino - è "una mischia di lutto e luce".
A Palermo vive Federico che nel 1993 ha diciassette anni, un'età beffarda che suona come "un errore di tempistica tra domanda e offerta". Ha tutte le domande ma nessuna risposta, si aspetta giorni luminosi e pieni di incanto e non sa ancora come può essere scura e labirintica la notte della vita. 
A Palermo vive anche il professore di religione di Federico, Padre Pino Puglisi, che diciassette anni non li ha più, ma come i ragazzi ha la mente e il cuore pieni di domande. Qualche risposta in più Don Pino ce l'ha, per esempio la vita gli ha insegnato che l'inferno non ha niente a che fare con il fuoco e le fiamme: 
L'inferno è pura sottrazione, è togliere tutta la vita e tutto l'amore da dentro le cose. 

“Pietroburgo” di Andrej Belyj: metodi&miasmi

 Pietroburgo
di Andrej Belyj
Adelphi Edizioni, 2014

pp. 384
euro 22






Questo è un romanzo che vermina dalle brume della Pietrogrado del 1905, alias Pietroburgo, futura Leningrado ed ora, ai giorni nostri, nuovamente San Pietroburgo. Una storia marcia e virata al “giallo-verde acido dei palazzi sulle prospettive”, dove Andrej Belyj, “il più razionale degli scrittori surrealisti russi”, mette in piedi il suo personale Puppentheater. E' una sorta di balletto meccanico à la Léger, in cui un figlio, Nikolaj Apollonovič, giovane fatuo imbevuto di idealismo kantiano e torbidi sogni rivoluzionari, ed un padre, Apollon Apollonovič, idolo meschino e abietto della burocrazia imperiale, si perdono tra le nebbie di Pietroburgo, espressione di forze opposte della tangibile elettricità che scorre tra le isole e le vie sudice, fino poi ad incontrarsi/scontrarsi in una tenzone che non ha nulla di epico ma tutto di tragicomico, con un fondale di parricidio che ha perduto ormai ogni nobiltà, anche oscura, dei tempi andati.

La storia è popolata da figure enigmatiche e idiosincratiche, sorta di personaggi da Narrenspiel:: Dudkin, terrifico terrorista nichilista, avvinazzato, sempre in preda ad allucinazioni anti-mongoliche, Lippacenko, viscido provocatore e spia doppiogiochista, grasso ed unto “come un uovo a cui è stato tolto il guscio”, Anna Petrovna, madre sciagurata e avviluppata da passioni sensuali, ritrovata dal figlio e dal padre dopo anni di vagabondaggio, ricolma di adipe e di verità non dette e Sof’ja Petrovna Lichutina, bambolina di porcellana giapponese, esile figura di geisha inverosimile, talmente inconsistente da apparire un rantolo di nebbia insinuatasi nei saloni pietroburghesi.

Ho preso quella diligenza: destinazione inferno

Meridiano di sangue
(Blood meridian on the evening redness in the west)
di Cormac McCarthy
Einaudi, 1996 (1985)
pp. 344


A parte il fatto che la traduzione italiana del titolo è evidentemente monca del rossore serale che richiama, se ce ne fosse bisogno, la tonalità del sangue, affrontare questo libro rappresenta l’equivalente letterario del salire su una diligenza con capolinea inferno, seguendo vicende al di fuori della portata del giudizio degli uomini. E forse di Dio. Il «western che mette la parola fine a tutti i western» per David Foster Wallace.

"Crum": i Sommersi di Lee Maynard



Crum
di Lee Maynard
1^  Edizione americana, 1988
Siena, Barney Edizioni, "I fuorilegge", 2014
Traduzione di Nicola Manuppelli

pp. 221   
€ 16,90







Più di ogni altro, il romanzo di formazione implica le categorie dell’eroe e dell’eroismo, e ad esso ci si accosta aspettandosi un racconto, di figure e di episodi, così inteso: una serie di eventi – ostacoli che sono opportunità – accadono ad un personaggio forte, quasi sempre il giovane, irrequieto ed elastico, simbolo, per citare Franco Moretti nel Romanzo di formazione (1986), dell’inquietudine e della mobilità della società di cui è frutto e allegoria (la società moderna che muove verso l’industria e la secolarizzazione) e còlto nel suo momento di “non appartenenza”, a metà del guado tra gioventù e maturità, tra un’età cui approdare e una che sta abbandonando. In tal senso, gli ostacoli sono eventi epifanici, rivelatorii, che scandiscono la maturazione dell’eroe, lo rendono consapevole di sé, del proprio valore, educandolo alla vita e riconsegnandolo, al termine del tragitto – e al di fuori del romanzo, dopo la fine, giacché essa coincide con l’inizio della sua vita borghese – al corpo sociale, uomo fatto e finito, responsabile, adulto, non più narrativamente fertile ma finalmente integrato.

Se dunque, psicanaliticamente, il tracciato qui descritto rappresenta un processo di espulsione e di reintegrazione che ha, tra i suoi primi esempi di lingua volgare, i romanzi cavallereschi di Chretien de Troyes del XII secolo (l’eroe, giovane e immaturo e perciò potenzialmente sovversivo, esce dal castello – espulsione dell’adolescente dal corpo sociale; affronta temperie e avversità – confronto coi propri incubi e ossessioni, educazione alla vita e maturazione; sconfigge il nemico e conquista la fanciulla – approdo alla stabilità sessuale e sentimentale; infine rientra, vincitore, al castello – reintegrazione nella società, da uomo maturato, pronto a inserirsi proficuamente nell’ingranaggio socioeconomico immutabile del borgo), va detto che questo percorso, di cui è innervata la letteratura lungo tutto il Settecento e l’Ottocento, tende, verso la fine del XIX Secolo, alla deflagrazione, per sgretolarsi definitivamente dopo gli anni Quaranta del Novecento.

#LibrinTrincea - Caporetto nella letteratura di guerra pt. 3

Nella terza e ultima raccolta dedicata alla Grande Guerra con estratti da I vinti di Caporetto nella letteratura di guerra di Mario Isnenghi, riprendiamo alcuni momenti importantissimi dell’analisi della sconfitta di Caporetto. 
Giuseppe Prezzolini analizza le difficoltà di fondo dell’affrontare una guerra per l’esercito italiano, e Aldo Palazzeschi – con il tipico vigore – attacca una guerra “d’Annunziana” voluta a tutti i costi senza però fare i conti con la realtà. Carlo Emilio Gadda invece si preoccupa enormemente per la sua reputazione di soldato dopo la sconfitta (e  ciò ci dice molto sul valore dell’arruolamento anche tra gli intellettuali dell’epoca) e della patria stessa, tanto da dedicare parole durissime contro chi ha contribuito alla sconfitta. 
Interessante invece l’analisi di Aldo Plazzeschi e Curzio Malaparte che vedono in maniera diversa un comun atteggiamento di ribellione da parte dei soldati verso i comandi e i loro superiori.

NdA: le pagine di riferimento sono quelle del volume di Mario Isnenghi I vinti di Caporetto nella letteratura di guerra (Venezia, Marsilio, 1967)


#VivaSheherazade La garçonne: il romanzo scandalo di Victor Margueritte


La garçonne
di Victor Margueritte
Sonzogno, 2014 


Curioso destino editoriale quello toccato in sorte a La garçonne e al suo autore, il celebre romanziere francese Victor Margueritte: scrittore apprezzato dalla critica e insignito della Legion d’onore, autore di saggi, drammi teatrali, romanzi, attento indagatore della società a lui contemporanea, la pubblicazione nel 1922 della storia della spregiudicata Monique gli portò enorme fama presso il pubblico – e La garçonne divenne un vero e proprio best seller dell’epoca – ma contemporaneamente lo scandalo di una protagonista tanto disinvolta causò la perdita dell’onorificenza; una storia che ha visto più di una trasposizione cinematografica (di cui si ricorda la versione del 1936 che segna il debutto, in un piccolo ruolo, della grande Edith Piaf) ma su cui negli ultimi decenni era caduto il velo d’oblio. Da qualche mese tuttavia, l’interessante recupero ad opera della casa editrice Sonzogno che ripropone al pubblico italiano un romanzo che vale la pena recuperare, sforzandosi di leggere la storia immaginando l’epoca in cui è stata ideata e il significato che la garçonne Monique ha assunto nella costruzione di un nuovo ideale femminile nel pieno degli Anni Ruggenti.

Tra identità e narrazione: "Itaca per sempre" di Luigi Malerba

Itaca per sempre
di Luigi Malerba
Mondadori, 1997
pp. 185 € 9.00


Nelle mani di Luigi Malerba la storia della letteratura si fa labirinto, e la lettera dei classici diventa lo spunto per un'indagine raffinata sui sentieri interrotti dell'identità, sulla fragilità costitutiva della nostra condizione al di là di ogni epoca e cultura. La storia di Ulisse e Penelope costituisce il paradigma occidentale del dissidio tra desiderio d'avventura e di sicurezza, ma anche della fiducia nel potere dell'uomo di trovare un posto nel mondo: Malerba la rilegge e la racconta di nuovo, facendo fluire nella narrazione la sensibilità dell'uomo moderno, privo di riferimenti e certezze, ma anche una rinnovata immagine dei rapporti tra uomo e donna. Tutto questo tentando di non stravolgere la natura intima del racconto omerico. 

Le inguaribili nevrosi del disamore


Lacci
di Domenico Starnone

Einaudi, 2014
pp. 138
€ 17.50


Si può cominciare un libro e prendere subito uno schiaffo? Non sembra molto edificante, eppure lo schiaffo c’è, diretto e sonoro: «Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie». Allora, esiste pure un marito e si capisce che non funziona qualcosa in questo menage. Lui: Aldo. Lei: Vanda.

La prima parte di questo bellissimo libro, si può scrivere libri bellissimi anche andando poco oltre le 100 pagine e sopportando il richiamo continuo a Elena Ferrante a cui Starnone è sottoposto, sono le lettere che Vanda scrive al marito, riportando l’enorme umiliazione che vive dopo essere stata lasciata. E quindi esiste un’altra lei: Lidia, intelligente, colta, ambiziosa. Più giovane. Tra le righe, Vanda ammicca anche a quest’ultimo aspetto, si sente una pezza vecchia, ma ciò che porta Aldo a fuggire per anni da casa non è l’elemento anagrafico quanto la sensazione di uscita da un isolamento dove tutto è percepito come colloso. Economicamente ed esistenzialmente.

"Villa Gradenigo" di Giuseppe Bevilacqua




Villa Gradenigo
di Giuseppe Bevilacqua 
Einaudi, “L’Arcipelago”, 2011

pp. 117
€ 12,00



A proposito dell’annata letteraria 1982, Sergio Pautasso inseriva Il gelo – ultimo tassello della trilogia de Gli anni impossibili di Romano Bilenchi – tra le prove migliori del tempo, aggiungendo come non fosse “casuale che, in un momento di crisi come l’attuale, la risposta più alta arrivi proprio da uno scrittore schivo e appartato, che addirittura riprende un filone che risale a quarant’anni fa [i precedenti La siccità e La miseria erano degli anni ‘40], a dimostrazione che il tempo della letteratura è altro rispetto alle cadenze annuali che seguiamo in queste rassegne.” Bilenchi, come più avanti Moravia e Samonà al tempo dello sdegno di Bo sui romanzi contemporanei (“Perché li hanno scritti?” – si chiedeva, il critico dell’Ermetismo, faticando a trovarne uno cui dare il Campiello, nel 1989), era allora un grande vecchio della letteratura italiana; l’aveva attraversata, dagli anni Trenta fin quasi alla fine della Prima Repubblica (morì nel 1989), consegnando un’opera di qualità, stilistica e perciò etica, unica, in cui non una parola era stata scritta al di fuori dell’intima necessità, in cui tutto era autentico e mai superfluo; e questo anche a costo di decenni di silenzio, in cui la possibilità della letteratura era sembrata sbiadire, davanti all’urgenza politica, al giornalismo. Quello che Il gelo consegnava, secondo Pautasso, alle lettere italiane di trentadue anni fa, era un messaggio di rigore e di misura, di serietà e di eticità – di stile – che rimetteva a dritta la barra della letteratura, smarrita tra operazioni commerciali che stavano polverizzando il sistema letterario nazionale e il tana libera tutti delle scritture giovanilistiche che proprio allora prendevano piede. E ci volle un grande vecchio, perché un messaggio del genere, inappellabile, necessario, potesse essere scritto e gettato, con l’umiltà dei grandi, nell’agone letterario.

#Rileggiamo con voi - novembre

Il Castello Sforzesco milanese per #BCM14
Cari lettori,
novembre si è concluso e noi vogliamo come al solito consigliarvi qualche lettura per aprire al meglio il nuovo mese! 
E tenetevi pronti, presto torneranno i consigli per i regali natalizi! 

La redazione 

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Claudia consiglia...
"Storie di uomini e libri" di Giancarlo Ferretti e Giulia Iannuzzi 
(leggi la recensione)
Perché: è una storia dell'editoria italiana che oltrepassa la semplice distinzione in periodi; racconta le grande collane della nostra storia letteraria e i gli uomini straordinari che le idearono.
A chi: agli appassionati dell'editoria e delle sue storie, a tutti coloro che amano perdersi tra i libri di ieri e di oggi. 

Debora consiglia: 
"Jane Austen i luoghi e gli amici" di Constance Hill
(leggi la recensione)
Perché: È un viaggio sentimentale alla scoperta delle tracce terrene della sempre amatissima autrice, il pellegrinaggio di due sorelle nella campagna inglese di primo novecento, corredato da schizzi.
A chi: ai fan dell'opera immortale della cara Miss Austen, a coloro che programmano un viaggio nei luoghi in cui ha vissuto ed ambientato i suoi romanzi, per scoprire come apparivano più di un secolo fa.

Amicizie in chiaroscuro: quel che non si dice e sedimenta

Se stasera siamo qui
di Catherine Dunne
Guanda, "Le Bussole", 2014

1^ ed. 2007
Traduzione di Paola Mazzarelli

pp. 432
€ 10




Avete idea di quante sono le combinazioni possibili dell'amicizia fra tre donne intelligenti, competitive, complesse? (p. 228)

Tante, non è vero? Se addirittura le donne implicate sono quattro, e con caratteri molto diversi e spesso antinomici, ecco che le combinazioni saranno tra le meno scontate. L'occasione per rianalizzare o, perlomeno, prendere atto di questo legame è il festeggiamento per i venticinque anni di amicizia: una serata come tante altre, con Georgie, Maggie e Nora attorno al tavolo di Claire, perché tocca a lei ospitare. Una serata con cin-cin, chiacchiere, e un bilancio di amicizia e di vita. Un bilancio temibile, forse, perché le quattro dovranno guardarsi negli occhi e non potranno dirottare i discorsi su moda, arredamento, lavoro, cucina e figli, come spesso fanno. Ed è (forse, ma non lo riveliamo) per questo che nelle prime pagine del romanzo Georgie parte, lascia la sua Dublino per l'Italia (e in particolare la Toscana), pur sapendo - e anzi prevedendo - le mosse della serata. Sì, perché è pienamente cosciente dello sconquasso che porterà nel gruppo, come anche delle dinamiche di pettegolezzo e di commento che questo susciterà:
La mia assenza diventerà presto una presenza, qualcosa con cui fare i conti, e ci saranno un sacco di ossa da passare minuziosamente al vaglio, una carcassa da seppellire, prima che i convenuti al funerale possano andarsene per la propria strada. (p. 79)

#LibrinTrincea - Caporetto nella letteratura di guerra pt. 2

In questa seconda raccolta dedicata alla Prima Guerra Mondiale per la rubrica #LibrinTrincea, riprendiamo degli scritti di Mario Puccini che espressivamente rappresenta la “carovana” dei soldati che hanno sopportato di tutto. Una rappresentazione vicina a quella di Paolo Monelli, intento a richiamare la condizione umana più che quella di soldati in guerra per la patria. 
Il racconti distaccato di Alfredo Panzini, che riporta come la città continui con le sue vivacità nonostante la terribile sconfitta, si scontra invece con il dolore del racconto in prima persona di Aldo Palazzeschi quando apprende della disfatta.

NdA: le pagine di riferimento sono quelle del volume di Mario Isnenghi I vinti di Caporetto nella letteratura di guerra (Venezia, Marsilio, 1967)




#CritiComics - Il selvaggio e romantico West di "Gus"

Gus - 1. Nathalie
di Christophe Blain
Traduzione di Michele Foschini
Bao Publishing, 2014

pp. 79
€ 16,00 cartaceo

Per me il selvaggio West ha sempre rappresentato il luogo dove il valore della parola veniva sospeso per lasciare spazio all'importanza dell'azione. Pur esercitando il massimo dello sforzo sulla mia memoria, mi viene difficile ricordare più di cinque o sei sequenze del cinema western rese famose da un dialogo, mentre potrei fare un elenco pressoché infinito di sparatorie, duelli, fughe, attacchi indiani o assalti ai treni, e questo coinvolgendo il classico John Ford (la cui visione del West è stata purtroppo invecchiata più dalla critica cinematografica che dall'età), l'apocalittico Peckinpah, o molto di quel cinema degli anni Settanta che - citando il western - metteva in scena personaggi silenziosi (basti guardare il carpenteriano “1997: Fuga da New York”).

Il cinema western trova la sua misura morale proprio nel giudicare gli uomini dalle proprie azioni, scartando del tutto il peso delle loro parole. Perché quando un uomo con molte cose da dire incontra un uomo con il fucile, quello con molte cose da dire è un uomo morto perché durante un duello non bisogna parlare, bisogna semplicemente sparare.

L'accumulo dei malesseri singoli nell'Italia di oggi

La ferocia
di Nicola Lagioia
Einaudi, 2014


pp. 418


Il consiglio spassionato è: divorare “La ferocia”. Magari, successivamente, ci sarà bisogno di chiarire certi passaggi, depositarli, ricostruirseli in testa, perché no rileggerli. La ferocia a chi appartiene? È una parola impegnativa, io la trovo anche letteraria. La ferocia è una condizione che si raggiunge per accumulo. I singoli personaggi, infatti, non sono delle belve assatanate, non ci sono i cartelli messicani della droga di Don Winslow, nonostante si finisca per indagare pure qui, e smascherare, un contesto malavitoso.

Da Vittorio Salvemini agli ultimi comprimari, alcuni sono peraltro ben caratterizzati, tutti si sostengono grazie a un intricato sistema di alleanze di comodo dove entrano in ballo galoppini, affari sporchi, paesaggi sventrati, sporchi festini. Perfino una figlia. E ricatti. Eppure in ciascuno cresce di pari passo un senso di profondo malessere, vuoi per l’età vuoi per margini di coscienza, un malessere paludoso, quello della gente di potere ma sull’orlo perenne di un burrone in fondo al quale sta la sconfitta. Delineabile.
Lagioia s’immerge in questa palude con una perseveranza che per qualcuno può essere fastidiosa. Personalmente non ho provato questo sentimento, nemmeno quando dalle pagine emergono gli aspetti più perversi, perché si parte sempre da un’esplorazione a monte: quella del cuore dei “cattivi”, una prospettiva che svela una traccia di umano. Non sono feroci, assumono semmai atomi di una ferocia schizzata ovunque.

Marco Saverio Loperfido, "Claude Glass"





Claude Glass
Marco Saverio Loperfido

Annulli Editori, 2014
pp. 159
12,00


Il paesaggista si piazza alle spalle a ciò che vuole ritrarre e proprio grazie allo specchio convesso lo vede tutto racchiuso davanti a sé. Non trovi che ci siano delle similitudini con il tuo modo di guardare l’Italia, ovvero attraverso la lente del mio sguardo, posto dietro di te nel tempo? (Pag 73)

Coloro i quali nel settecento ritraevano paesaggi ad acquarello, usavano il claude glass, il cui nome ricorda Claude Lorraine. Il claude glass era un piccolo specchio convesso e annerito, da usare posizionandosi con le spalle rivolte verso ciò che si voleva dipingere. Lo specchietto creava una migliore inquadratura della scena e un ammorbidimento dei colori che prendevano così una sfumatura languida. Era usato anche dai viaggiatori dell’epoca.
Claude Glass” è anche il titolo del romanzo d’esordio di Marco Saverio Loperfido, per la Annulli editori. Il romanzo si rifà alla tradizione della “simulazione del vero”, con l’espediente del ritrovamento del manoscritto o delle lettere. Nello specifico, Claude Glass è il nome di un negozio di robivecchi nel quale il protagonista, Sebastiano Valli, trova, chiusa nel cassetto di un mobile, una lettera scritta da Robert Grave, giovanotto inglese, giunto in Italia nel 1792 per fare il Gran Tour, cioè quel giro d’istruzione finanziato dai genitori, che erano soliti compiere i ragazzi della buona società anglosassone. Spinto da un impulso bizzarro, Sebastiano risponde alla lettera. Inizia così un favoloso carteggio fra due uomini che vivono a distanza di duecento anni l’uno dall’altro. Robert e Sebastiano diventano amici, approfondiscono la reciproca conoscenza, aprono l’un l’altro il proprio cuore, litigando e riappacificandosi, come capita spesso nelle amicizie reali e in quelle virtuali. Anche Hollywood ha sfruttato la trovata dell’epistolario sfasato nel tempo in alcuni film, ci viene in mente “La casa sul lago del tempo” di Alejandro Agresti, a sua volta remake di un film coreano.
I tempi divergenti di Sebastiano e Robert si avvicineranno sempre più, le donne amate avranno lo stesso nome, fino alla conclusione che, pur lasciando aperte tutte le possibilità, fa intuire la probabilità di una sovrapposizione dei due. Forse Robert Grave è solo una proiezione di Sebastiano, il suo bisogno di vedere la realtà con gli occhi del passato o, meglio ancora, di “tornare” al passato.

Scrittori in Ascolto - "Atlante immaginario", incontro con Giuseppe Lupo


L'utopia come sguardo sul mondo, come modo di essere, forma e traccia della speranza. Ma utopia intesa anche come molteplicità di lingue, rotte e ipotesi che ciascuno si porta dentro, viaggiando su linee immaginarie tracciate su mappe imprecise e diverse, verso luoghi ipotetici ma sempre possibili se solo si ha il coraggio di immaginarli.

Il volume "Atlante immaginario" (Marsilio) scritto da Giuseppe Lupo - docente di letteratura italiana contemporanea presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e di Brescia nonché editorialista del «Sole 24 Ore della Domenica» - è una raccolta di articoli e riflessioni sull'altrove - sull'utopia - che sempre ci circonda, nos non sentientes. Un altrove caleidoscopico fatto di storie e vite che si ritrova e ritorna in quasi tutti i romanzi di Giuseppe Lupo (L'Americano di Celenne, Ballo ad Agropinto, La carovana Zanardelli, L'ultima sposa di Palmira e Viaggiatori di nuvole), scrittore con la capacità di suggerire ai propri lettori la possibilità di compiere quel passo in più verso uno sguardo creativo sul mondo. A ciascuno - pare essere questa la sintesi estrema delle tante brevi riflessioni contenute nel volume - è data ed è riservata un'utopia personale, fatta di un altrove colorato e vivo, un campo fiorito dove scorazzare, tracciando mappe e confini diversi, storie e "carovane". E la testimonianza è l'autore stesso e il suo sguardo sul mondo.